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In vigore al: 21/11/2014

Corte costituzionale - Sentenza N. 389 del 11.07.1989
Atto di indirizzo e coordinamento per l´accesso all'edilizia residenziale pubblica dei cittadini comunitari

Sentenza (4 luglio) 11 luglio 1989 n. 389; Pres. Saja - Red. Baldassarre
 
Ritenuto in fatto: 1. Con ricorso regolarmente notificato e depositato, la Provincia autonoma di Bolzano ha sollevato conflitto di attribuzione in relazione al d.P.C.M. 28 ottobre 1988 (Atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni e Province autonome per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica ed al relativo credito dei cittadini comunitari esercenti attività di lavoro autonomo), in quanto ritenuto lesivo delle competenze legislative di tipo esclusivo da essa detenute, a norma dell'art. 8 n. 10, e degli artt. 16 e 98 dello statuto di autonomia, in materia di « edilizia comunque sovvenzionata, totalmente o parzialmente, da finanziamenti a carattere pubblico », nonché delle competenze ad essa riconosciute dall'art. 6 d.P.R. 19 novembre 1987 n. 526, in ordine all'attuazione dei regolamenti della CEE, ove questi richiedano una normazione integrativa o un'attività amministrativa di esecuzione.
Premesso che la Provincia di Bolzano ha predisposto un'organica disciplina del settore, la quale non prevede la cittadinanza italiana come requisito necessario per poter beneficiare dell'assegnazione di alloggi dì edilizia residenziale pubblica o del relativo credito, e premesso, quindi, che non sussisteva l'esigenza di attuare nel territorio provinciale il regolamento del Consiglio della CEE n. 1612 del 1968 sulla parità di trattamento e sulla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità europea, la ricorrente sostiene che l'atto impugnato lede l'autonomia provinciale nel sottrarre ad essa la competenza di attuazione diretta delle norme comunitarie, che gli artt. 6 e 7 d.P.R, n. 526 del 1987 le garantiscono in misura più ampia e incisiva di quanto sia in genere riconosciuto alle Regioni e che era stata, per l'appunto, già esercitata.
In secondo luogo, la ricorrente osserva che, poiché le previsioni concernenti i requisiti soggettivi per l'accesso all'edilizia pubblica sovvenzionata sono contenute in atti legislativi, lo Stato, adottando un decreto ministeriale di indirizzo e di coordinamento, ha tentato di raggiungere un risultato che potrebbe esser realizzato soltanto mediante un atto legislativo specificamente diretto a modificare la previgente legislazione statale o a stabilire princìpi affinché le Regioni o le Province autonome si adeguino con le loro leggi alle norme comunitarie. Al contrario, l'atto impugnato - il quale, per la forma con cui è stato adottato, potrebbe indirizzare soltanto l'attività amministrativa della Provincia - pretenderebbe, secondo la ricorrente, di incidere direttamente sulle leggi provinciali che regolano la stessa materia, le quali sarebbero legittimamente soggette soltanto ad indirizzi adottati con legge dello Stato.
In terzo luogo, continua la ricorrente, nel caso in cui l'atto impugnato dovesse essere considerato come rivolto essenzialmente alle attività amministrative della Provincia, oltre ad esser soggetto a tutte le censure che la ricorrente ha già prospettato in un precedente giudizio di legittimità costituzionale avverso l'art. 2 comma 3 lett. d)l. 23 agosto 1988 n. 400 (v. ric. n. 31 del 1988), esso sarebbe viziato per i seguenti motivi: perché sarebbe privo di quel « supporto legislativo ulteriore » richiesto dalla giurisprudenza di codesta Corte; perché sarebbe contrario al cit. art. 2 l. n. 400 del 1988 che impone per gli atti di indirizzo e di coordinamento la deliberazione del Consiglio dei Ministri senza possibilità di delega; e, infine, perché violerebbe l'art. 12 comma 5 lett. b), la stessa l. n. 400 del 1988, che vincola il Governo a consultare la Conferenza permanente Stato-Regioni per gli atti come quello impugnato.
2. Si è regolarmente costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri per chiedere che il ricorso sia dichiarato non fondato.
Dopo aver ricordato che l'atto impugnato è stato adottato a seguito di una condanna dell'Italia, pronunziata dalla Corte di Giustizia della Comunità europea (adita dalla Commissione della CEE ex art. 169 del Trattato di Roma) con una sentenza nella quale è affermato che il nostro Paese è tenuto ad accordare, in materia di edilizia residenziale pubblica, la parità di trattamento; con i cittadini italiani dei lavoratori autonomi degli altri Paesi della Comunità che si avvalgono in Italia del diritto di stabilimento (art. 52 del Trattato) o della libera prestazione di servizi (art. 59), l'Avvocatura dello Stato osserva che la tesi della ricorrente, secondo la quale l'atto impugnato avrebbe dovuto essere un atto legislativo, sarebbe priva di fondamento. Infatti, poiché le norme comunitarie dettate in conformità del Trattato o anche quelle deducibili dal Trattato stesso, così come vengono accertate ed enunciate dalle sentenze della Corte europea, prevalgono su diverse e contrarie disposizioni legislative, sarebbe contraddittorio ritenere che tale efficacia, anziché discendere dal rapporto esistente tra l'ordinamento interno e quello comunitario, e quindi operare per forza propria, debba esser realizzata solo grazie ad un apposito intervento del legislatore nazionale, che trasformi la norma comunitaria in una norma di diritto interno.
Da ciò conseguirebbe, secondo l'Avvocatura, che i requisiti previsti dalle leggi italiane per l'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, a seguito e in forza della sentenza della Corte di giustizia del 14 gennaio 1988, non sarebbero più legittimamente applicabili nei confronti dei cittadini degli altri Paesi membri della Comunità, dovendo ricevere, in base a quella sentenza, il medesimo trattamento dei cittadini italiani nell'accesso all'edilizia residenziale pubblica. Pertanto, l'atto di indirizzo e di coordinamento impugnato, che è stato emanato in chiave di adempimento di un obbligo comunitario, non avrebbe, secondo l'Avvocatura, la funzione di innovare l'ordine legislativo preesistente, ma mirerebbe ad assicurare uniti vocità e correttezza di comportamenti da parte dei soggetti che devono applicare la legislazione italiana ormai modificata dalla sentenza prima ricordata.
Quanto alle restanti censure, mentre la pretesa violazione del principio di legalità sarebbe contraddetta dalle considerazioni già svolte, quelle basate sulla l. n. 400 del 1988 muoverebbero da un'errata interpretazione di questa stessa legge. In particolare, secondo l'Avvocatura, l'atto impugnato è stato deliberato dal Consiglio dei Ministri ed emanato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, non esistendo alcuna disposizione che vincola ad emanare con decreto del presidente della Repubblica le deliberazioni del Consiglio dei Ministri. Infine, la consultazione della Conferenza Stato-Regioni sarebbe prevista, per l'Avvocatura, solo per l'adozione dei criteri generali relativi alla funzione di indirizzo e coordinamento, non già per l'adozione di ogni singolo atto di esercizio della predetta funzione.
3. In prossimità dell'udienza la Provincia autonoma di Bolzano ha presentato una memoria, con la quale, oltre a ribadire argomenti già svolti nell'atto introduttivo, replica all'Avvocatura dello Stato che non si potrebbe considerare l'atto impugnato come una sorta di richiamo all'applicazione di norme comunitarie di per sé già applicabili.
Infatti, secondo la ricorrente, il principio della prevalenza della normativa comunitaria rispetto a quella legislativa interna con essa incompatibile è stato condizionato da questa Corte alla sussistenza del requisito della immediata applicabilità delle norme comunitarie (regolamenti o trattati istitutivi), requisito che può derivare anche da una sentenza interpretativa pronunziata dalla Corte di giustizia della Comunità ai sensi dell'art. 177 Trattato CEE (cioè nel procedimento su ricorso pregiudiziale). Nel caso di specie, invece, si riscontrerebbe ora una disciplina comunitaria di per sé non eseguibile, trattandosi di norme di principio impegnative per gli Statimembri (artt. 48, 52 e 59 Trattato CEE), ora una disciplina attuativa delle norme di principio appena ricordate, che nel concedere parità di trattamento con i lavoratori nazionali nell'accesso alla edilizia pubblica residenziale, si riferirebbe, tuttavia, ai soli lavoratori subordinati (art. 9 par. 1, regolamento CEE n. 1612 del 1968), e non già a quelli autonomi, che sono invece contemplati dall'atto impugnato. Pertanto, conclude la ricorrente, la parificazione nell'accesso all'edilizia residenziale tra lavoratori subordinati e lavoratori autonomi dovrebbe esser stabilita e regolata soltanto da atti normativi interni.
Per altro verso, la ricorrente contesta che si sia in presenza di una sentenza interpretativa di disposizioni del Trattato CEE, emessa dalla Corte di giustizia ai sensi dell'art. 177 comma 1 lett. a), del Trattato stesso, e, come tale, in grado di rendere le norme interpretate come immediatamente eseguibili o di porsi, essa stessa, come espressiva di statuizioni compiute e direttamente applicabili da parte dei giudici interni. Secondo la Provincia di Bolzano, la sent. 14 gennaio 1988 è stata adottata ai sensi dell'art. 169 del Trattato CEE e, come tale, non avrebbe posto una disciplina comunitaria (conforme ai princìpi degli artt. 52 e 59 del Trattato CEE) direttamente applicabile dai giudici italiani, ma comporterebbe, a norma dell'art. 171 dello stesso Trattato, un obbligo per la Repubblica italiana - da attuarsi secondo la ripartizione costituzionale delle competenze - di adottare i provvedimenti necessari per l'esecuzione della sentenza stessa e, quindi, di abrogare le norme eventualmente incompatibili con la medesima (eventualità che, peraltro, secondo la ricorrente, non sussisterebbe in concreto nel caso della Provincia di Bolzano, le cui leggi, ad avviso della stessa, non prevederebbero il requisito della cittadinanza).
Tuttavia, anche se così non fosse e anche se le norme comunitarie dovessero essere ritenute immediatamente applicabili, non si potrebbe sfuggire, a giudizio della ricorrente, alla seguente alternativa: o l'atto impugnato, in contrasto col suo tenore letterale, va considerato privo di ogni reale incidenza sull'ordinamento (come vorrebbe l'Avvocatura dello Stato), e allora se ne dovrebbe riconoscere l'inidoneità ad esplicare effetto veruno nei confronti della Provincia di Bolzano; o lo stesso atto è diretto a incidere sull'ordine legislativo sotto le mentite spoglie di un atto di indirizzo e di coordinamento meramente « esplicativo », e allora dovrebbe essere dichiarato illegittimo. In ogni caso, una volta ammessa la prevalenza della disciplina comunitaria direttamente applicabile, sarebbe errato, secondo la ricorrente, non ritener necessario un intervento del legislatore nazionale volto a trasformare la norma comunitaria in una norma di diritto interno. Infatti, una cosa sarebbe riconoscere, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale, che i giudici possono « disapplicare » la legge italiana eventualmente contrastante con le norme comunitarie direttamente applicabili, altra cosa sarebbe affermare che, ove si intenda modificare da parte dello Stato la disciplina legislativa ritenuta incompatibile con quella comunitaria, ciò dev'esser fatto nel rispetto delle regole fondamentali sul riparto delle competenze fra Stato e Regioni (e Province autonome) e sui rapporti tra le fonti normative (nel caso, con un atto legislativo).
 
Considerato in diritto: 1. La Provincia autonoma di Bolzano ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione all'emanazione del d.P.C.M. 28 ottobre 1988 (Atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni e alle Province autonome per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica ed al relativo credito dei cittadini comunitari esercenti attività di lavoro autonomo), con il quale si stabilisce che, nell'assegnare gli alloggi di edilizia economica e popolare e nel disciplinare l'accesso al relativo credito, « gli organi dello Stato, le Regioni a statuto ordinario e speciale, le Province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti pubblici e gli istituti esercenti il credito a favore dell'edilizia (...) considereranno i cittadini di Stati membri della Comunità economica europea, che svolgano in Italia attività di lavoro autonomo e versino nelle condizioni soggettive ed oggettive previste dalla citata normativa, equiparati ai lavoratori autonomi cittadini italiani ».
Secondo la ricorrente, tale atto lederebbe le competenze legislative di tipo esclusivo ad essa attribuite dall'art. 8 n. 10, e dagli artt. 16 e 98 dello stat. Trentino-Alto Adige (d.P.R. 31 agosto 1972 n. 670), in materia di « edilizia comunque sovvenzionata, totalmente o parzialmente, da finanziamenti a carattere pubblico », e dalle relative norme di attuazione, nonché le competenze riconosciute alla stessa ricorrente dall'art. 6 d.P.R. 19 novembre 1987 n. 526 (Estensione alla Regione Trentino-Alto Adige ed alle Province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616), in ordine « all'attuazione dei regolamenti della Comunità economica europea, ove questi richiedono una normazione integrativa o un'attività amministrativa di esecuzione ».
Per contro, la difesa del Presidente del Consiglio dei Ministri nega che l'atto impugnato possa essere considerato invasivo delle competenze assicurate alla ricorrente, in quanto, collegandosi a norma comunitarie direttamente applicabili nell'ordinamento degli Stati membri della Comunità europea, che, come tale, prevalgono per forza propria sul diritto interno, non potrebbe esser diretto ad adeguare l'ordinamento nazionale ai princìpi comunitari e a innovarne in tal modo l'ordine legislativo, ma sarebbe rivolto, piuttosto, a porre direttive a coloro che sono chiamati a dare attuazione alle predette norme comunitarie allo scopo di assicurare l'uniformità e la correttezza dei relativi Comportamenti.
2. Al fine di decidere tale conflitto di attribuzione occorre, innanzitutto, individuare le norme comunitarie poste a base dell'atto impugnato, e verificare se esse abbiano un'efficacia diretta nell'ordinamento interno di uno Stato membro.
Contrariamente a quel che suppone la ricorrente e nonostante che lo stesso d.P.C.M. 28 ottobre 1988 faccia espresso riferimento nel suo preambolo all'art. 9 par. 1, del reg. CEE 15 ottobre 1968 n. 1612/68, non è possibile considerare quest'ultimo come il fondamento normativo dell'atto impugnato. Infatti, mentre il d.P.C.M. 28 ottobre 1988 contiene disposizioni esclusivamente riferite ai lavoratori autonomi, il regolamento comunitario n. 1612 del 1968, come ha riconosciuto in più occasioni la stessa Corte di giustizia europea (v., ad esempio, sent. 12 febbraio 1974, in causa 152/73;
sent. 14 gennaio 1982, in causa 65/81; sent. 13 luglio 1983, in causa 152/82;
sent. 14 gennaio 1988, in causa 63/86), si riferisce, invece, unicamente ai lavoratori subordinati. Più precisamente, l'art. 9 par. 1, di tale regolamento, in diretta applicazione dell'art. 48 del Trattato istitutivo, attua e completa la garanzia ivi prevista della libera circolazione dei lavoratori subordinati all'interno della Comunità, riconoscendo come parte integrante della stessa l'equiparazione dei lavoratori provenienti da altro Stato membro ai lavoratori nazionali per tutto quel che concerne i diritti e i vantaggi da questi goduti nell'accesso alla proprietà e alla locazione degli alloggi.
La norma comunitaria che sta a base dell'atto impugnato, pur se dispone per i lavoratori autonomi una disciplina perfettamente identica a quella stabilita per i lavoratori subordinati, ha un fondamento distinto nel Trattato istitutivo della CEE ed è frutto di un diverso procedimento di produzione normativa. Il fondamento, infatti, è dato dagli artt. 52 e 59 del Trattato, i quali, ispirandosi alla medesima ratio dell'art. 48, riconoscono ai cittadini degli Stati membri il diritto di stabilirsi in qualsiasi altro Paese della Comunità, di svolgersi attività di lavoro non salariato e di prestarvi liberamente i servizi. Tuttavia, diversamente da quanto è avvenuto per i lavoratori subordinati, l'interpretazione estensiva della garanzia di quelle libertà - nel senso di ricomprendervi l'equiparazione dei lavoratori autonomi di altro Stato membro con quelli nazionali per quanto concerne i diritti e i vantaggi per l'accesso alla proprietà e alla locazione degli alloggi - è avvenuta, non per effetto di un regolamento, ma in conseguenza di una sentenza della Corte di giustizia europea.
Nel decidere, con sent. 14 gennaio 1988, in causa 63/86, un giudizio promosso nei confronti dell'Italia a norma dell'art. 169 del Trattato (vale a dire un giudizio per violazione di obblighi derivanti dal Trattato), la Corte di giustizia, interpretando gli artt. 52 e 59 in connessione con il principio di parità di trattamento sancito dall'art. 7 dello stesso Trattato e partendo dalla considerazione che l'esercizio di un'attività professionale presuppone anche la garanzia di prendere dimora nel luogo in cui quell'attività viene svolta, ha concluso che il diritto allo stabilimento e alla libera prestazione di servizi e il principio della parità di concorrenza all'interno della Comunità comportano che « il cittadino di uno Stato membro che intenda esercitare un'attività lavorativa autonoma in un altro Stato membro deve pertanto potervi prendere alloggio a condizioni equivalenti a quelle di cui fruiscono i concorrenti cittadini di quest'ultimo Stato » (punti 14 e 15 della sentenza precedentemente citata). Su tale base, la stessa Corte ha condannato la Repubblica italiana per aver violato i predetti obblighi attraverso l'adozione di atti legislativi, nazionali e regionali (Puglia, Toscana, Emilia-Romagna e Liguria), che aveva riservato ai soli cittadini italiani l'accesso alla proprietà o alla locazione di alloggi rientranti nell'edilizia residenziale pubblica e al relativo credito.
3. In sintesi, la norma comunitaria che sta a fondamento del decreto impugnato è data dagli artt. 52 e 59 del Trattato come interpretati dalla sent. 14 gennaio 1988, in causa 63/86, resa dalla Corte di giustizia delle Comunità europee ai sensi dell'art. 169 del Trattato istitutivo.
Ad avviso della Provincia autonoma di Bolzano, una sentenza come quella appena citata, resa in sede di giudizio di condanna per violazione di obblighi derivanti dal Trattato, non potrebbe essere considerata fonte di statuizioni compiute e direttamente applicabili negli ordinamenti interni degli Stati membri, dovendo riconoscersi tale qualità soltanto alle sentenze interpretative che la Corte di giustizia rende quando è adita in via pregiudiziale, ai sensi dell'art. 177 del Trattato.
Tale assunto non può essere condiviso. Anche se è vero che questa Corte ha avuto occasione in passato di riconoscere l'immediata applicabilità di una normativa comunitaria nell'interpretazione datane da una sentenza della Corte di giustizia resa in un giudizio instaurato ai sensi dell'art. 177 del Trattato (v. sent. n. 113 del 1985), il principio allora affermato è di portata più generale.
Poiché ai sensi dell'art. 164 del Trattato spetta alla Corte di giustizia assicurare il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del medesimo Trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l'ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative. Quando questo principio viene riferito a una norma comunitaria avente « effetti diretti » - vale a dire a una norma dalla quale i soggetti operanti all'interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio - non v'è dubbio che la precisazione o l'integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate.
Nel caso di specie, contrariamente a quanto supposto dalla ricorrente, si è di fronte a norme, come quelle contenute negli artt. 52 e 59 del Trattato, alle quali, essendo decorso il periodo transitorio, deve riconoscersi una diretta efficacia (v., in tal senso. Corte di giustizia CEE, sent. 21 giugno 1974, in causa 2/74; sent. 14 gennaio 1988, in causa 63/86) e dalle quali, pertanto, derivano attualmente diritti, come la libertà di stabilimento e quella di prestazione dei servizi, che sono immediatamente tutelabili in giudizio da parte dei cittadini degli Stati membri. Poiché con la sentenza precedentemente menzionata la Corte di giustizia europea ha affermato che nei predetti diritti va ricompresa la garanzia, per tutti i cittadini dei Paesi aderenti alla Comunità che svolgano un lavoro autonomo all'interno di altro Stato membro, di esser parificati ai cittadini di quest'ultimo Stato nel godimento dei diritti e delle agevolazioni concernenti l'accesso alla proprietà o alla locazione degli alloggi, si deve ritenere che le norme poste dagli artt. 52 e 59 del Trattato siano immediatamente applicabili negli ordinamenti nazionali nell'interpretazione più lata ora ricordata.
4. Chiarita la natura e l'efficacia delle norme desumibili dagli artt. 52 e 59 del Trattato CEE, si pone a questo punto il problema della definizione dei rapporti, all'interno dell'ordinamento nazionale, fra le norme comunitarie direttamente applicabili e le norme di legge con esse incompatibili.
Come questa Corte ha affermato nella sent. n. 170 del 1984 e in altre successive, il riconoscimento dell'ordinamento comunitario e di quello nazionale come ordinamenti reciprocamente autonomi, ma tra loro coordinati e comunicanti, porta a considerare l'immissione diretta nell'ordinamento interno delle norme comunitarie immediatamente applicabili come la conseguenza del riconoscimento della loro derivazione da una fonte (esterna) a competenza riservata, la cui giustificazione costituzionale va imputata all'art. 11 Cost. e al conseguente particolare valore giuridico attribuito al Trattato istitutivo delle Comunità europee e agli atti a questo equiparati. Ciò significa che, mentre gli atti idonei a porre quelle norme conservano il trattamento giuridico o il regime ad essi assicurato dall'ordinamento comunitario - nel senso che sono assoggettati alle regole di produzione normativa, di interpretazione, di abrogazione, di caducazione e di invalidazione proprie di quell'ordinamento - al contrario le norme da essi prodotte operano direttamente nell'ordinamento interno come norme investite di « forza o valore di legge », vale a dire come norme che, nei limiti delle competenze e nell'ambito degli scopi propri degli organi di produzione normativa della Comunità, hanno un rango primario.
Da ciò deriva, come ha precisato la già ricordata sent. n. 170 del 1984, che, nel campo riservato alla loro competenza, le norme comunitarie direttamente applicabili prevalgono rispetto alle norme nazionali, anche se di rango legislativo, senza tuttavia produrre, nel caso che queste ultime siano incompatibili con esse, effetti estintivi. Più precisamente, l'eventuale conflitto fra il diritto comunitario direttamente applicabile e quello interno, proprio perché suppone un contrasto di quest'ultimo con una norma prodotta da una fonte esterna avente un suo proprio regime giuridico e abilitata a produrre diritto nell'ordinamento nazionale entro un proprio distinto ambito di competenza, non dà luogo a ipotesi di abrogazione o di deroga, né a forme di caducazione o di annullamento per invalidità della norma interna incompatibile, ma produce un effetto di disapplicazione di quest'ultima, seppure nei limiti di tempo e nell'ambito materiale entro cui le competenze comunitarie sono legittimate a svolgersi.
Ribaditi questi princìpi, si deve concludere, con riferimento al caso di specie, che tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge) - tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi - sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme stabilite dagli artt. 52 e 59 del Trattato CEE nell'interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea. Ciò significa, in pratica, che quei soggetti devono riconoscere come diritto legittimo e vincolante la norma comunitaria che, nell'accesso alla proprietà o alla locazione dell'abitazione e al relativo credito, impone la parità di trattamento tra i lavoratori autonomi cittadini di altri Stati membri e quelli nazionali, mentre sono tenuti a disapplicare le norme di legge, statali o regionali, che riservano quei diritti e quei vantaggi ai soli cittadini italiani.
Tuttavia, poiché la disapplicazione è un modo di risoluzione delle antinomie normative che, oltre a presupporre la contemporanea vigenza delle norme reciprocamente contrastanti, non produce alcun effetto sull'esistenza delle stesse e, pertanto, non può esser causa di qualsivoglia forma di estinzione o di modificazione delle disposizioni che ne siano oggetto, resta ferma l'esigenza che gli Stati membri apportino le necessarie modificazioni o abrogazioni del proprio diritto interno al fine di depurarlo da eventuali incompatibilità o disarmonie con le prevalenti norme comunitarie. E se, sul piano dell'ordinamento nazionale, tale esigenza di collega al principio della certezza del diritto, sul piano comunitario, invece, rappresenta una garanzia così essenziale al principio della prevalenza del proprio diritto su quelli nazionali da costituire l'oggetto di un preciso obbligo per gli Stati membri (v., in tal senso. Corte di giustizia delle Comunità europee: sent. 25 ottobre 1979, in causa 159/78; sent. 15 ottobre 1986, in causa 168/85; sent. 2 marzo 1988, in causa 104/86).
5. Posti così i termini del problema, occorre esaminare conclusivamente quali siano la natura e le finalità del decreto impugnato.
Come si è precedentemente ricordato, mentre la ricorrente ritiene che tale decreto sia invasivo delle proprie competenze in materia di edilizia pubblica sovvenzionata o in quella dell'attuazione delle norme comunitarie direttamente applicabili, in quanto contiene direttive vincolanti in ordine alla modificazione di proprie leggi ovvero in ordine all'integrazione o all' applicazione nel proprio territorio del diritto comunitario immediatamente efficace, lo Stato, invece, ritiene che si sia in presenza di un atto di indirizzo per l'attuazione di norme comunitarie direttamente efficaci, il quale sarebbe pienamente legittimo in quanto giustificato dallo scopo di assicurare un'uniforme applicazione di quelle norme. In altre parole, tanto la Provincia di Bolzano quanto lo Stato presuppongono che si tratti di un atto governativo di indirizzo e di coordinamento, di cui forniscono, peraltro, una valutazione opposta m termini di legittimità.
In realtà, il d.P.C.M. 28 ottobre 1988 — anche se nel suo titolo si qualifica come « atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni e alle Province autonome » e anche se nel suo preambolo si definisce come un « atto di indirizzo per l'applicazione della normativa statale e regionale, nonché delle Province autonome di Trento e di Bolzano » — rivela un contenuto difficilmente conciliabile con un atto di quella natura. Nel suo articolo unico, infatti, tale decreto dispone testualmente: « Gli organi dello Stato, le Regioni a statuto ordinario e speciale, le Province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti pubblici e gli istituti esercenti il credito a favore dell'edilizia, nell'applicazione di norme di legge e di regolamenti statali, regionali e provinciali, che disciplinano l'assegnazione di alloggi di edilizia economica e popolare e l'accesso al connesso credito ed ogni altro beneficio relativo ad interventi di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata e agevolata, considereranno i cittadini di Stati membri della Comunità economica europea, che svolgano in Italia attività di lavoro autonomo e versino nelle condizioni soggettive e oggettive previste dalla citata normativa, equiparati ai lavoratori autonomi cittadini italiani ».
L'impossibilità di imputare tale disposizione alla funzione governativa di indirizzo e di coordinamento deriva dal fatto che quest'ultima costituisce l'esercizio di una competenza particolare che si distingue da altri poteri governativi di direzione o di direttiva — e, a maggior ragione, di normazione — per avere contenuto e caratteri formali del tutto peculiari. Più precisamente, tale funzione ha il proprio fondamento costituzionale nelle norme che pongono limiti alle competenze legislative e amministrative delle Regioni e delle Province autonome (v., da ultimo, sent. n. 242 del 1989); è esercitata da soggetti (legislatore o autorità di governo) e secondo procedure e forme che sono predeterminati dalla legge (v. specialmente artt. 3 l. n. 382 del 1975 e 2 comma 3, lett. d,l. n. 400 del 1988); è indirizzata a soggetti dotati di autonomia costituzionalmente garantita, che, in ragione di questa loro posizione, ne condizionano le modalità di esplicazione e i relativi limiti (principio di legalità « sostanziale », strumentalità alla tutela di interessi unitari, etc.); e, infine, è svolta attraverso atti caratterizzati da un contenuto dispositivo funzionalmente tipizzato, consistente nella posizione di programmi, di indirizzi o di misure di coordinamento.
Poiché secondo l'ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (y., ad esempio, sentt. nn. 219 del 1984,151 del 1986, 107 e 611 del 1987, 726 del 1988) l'autoqualificazione di un atto non può esser considerata determinante quando sia contraddetta dall'oggettiva natura giuridica dell'atto stesso, si rende necessario esaminare il decreto impugnato onde verificare se risponda ai requisiti di identità del proprio tipo.
6. Sulla base dei tratti caratteristici della funzione di indirizzo e di coordinamento prima ricordati, gli atti attraverso cui tale funzione si esercita vanno identificati tanto in relazione a criteri formali attinenti al fondamento di competenza, al soggetto che li adotta, alla forma della deliberazione, alla materia disciplinata e ai destinatari delle disposizioni, quanto in relazione a criteri materiali attinenti .alla caratterizzazione strutturale e funzionale delle misure adottate, le quali devono consistere nel contenuto tipizzato proprio della competenza di indirizzo e di coordinamento.
Sebbene risponda positivamente a molti dei requisiti indicati, il decreto impugnato è tuttavia manchevole sia per quanto riguarda i criteri contenutistici, sia per quanto concerne il criterio formale relativo ai propri destinatari.
Sotto il primo profilo, va sottolineato che il decreto impugnato non aggiunge alcun quid novi rispetto alla norma comunitaria che, in conseguenza dell'interpretazione datane dalla Corte di giustizia CEE nella sent. 14 gennaio 1988, in causa 63/86, si deduce dagli artt. 52 e 59 del Trattato CEE in relazione al diritto dei cittadini dei Paesi della Comunità concernente l'accesso alla proprietà e alla locazione degli, alloggi di edilizia residenziale pubblica e al relativo credito.
In altre parole, il d.P.C.M. 28 ottobre 1988, contrariamente a quanto supposto dalla ricorrente, non è diretto a integrare la predetta norma comunitaria, né a darvi attuazione e neppure a imporre alle Regioni e alle Province autonome di modificare o di adeguare alla stessa norma comunitaria le proprie leggi eventualmente difformi. D'altra parte, contrariamente a quanto supposto dall'Avvocatura dello Stato, il decreto impugnato non contiene direttive per l'applicazione della citata norma comunitaria, poiché si limita a ricordare alle Regioni e alle Province autonome, oltreché agli organi dello Stato, che, in base agli artt. 52 e 59 del Trattato CEE, come interpretati dalla Corte di giustizia europea, essi dovranno considerare i cittadini di Stati membri della Comunità economica europea, che svolgano in Italia attività di lavoro autonomo, come equiparati ai cittadini italiani nell'accesso agli alloggi di edilizia economica e al relativo credito.
In breve, l'atto impugnato si limita a portare a conoscenza di tutti gli organi dello Stato e di tutte le Regioni (e delle Province autonome) l'esistenza di un obbligo comunitario, di per sé già direttamente osservabile e prevalente sulle leggi statali o regionali, avente il contenuto riferito dal decreto stesso. Esso, in altre parole, adempie a una funzione notiziale, la quale ha, in ogni caso, contenuto e finalità tali da non poter essere minimamente ricondotta alla funzione di indirizzo e di coordinamento.
Del resto, un ulteriore indizio dell'impossibilità di ricondurre l'atto impugnato nell'ambito della funzione (governativa) di indirizzo e di coordinamento verso le Regioni e le Province autonome e della particolare posizione ricoperta dal Governo in tale evenienza è dato dal fatto che quell'atto è indiscriminatamente indirizzato a tutti gli organi, statali e regionali, che operano nell'applicazione delle leggi sull'edilizia residenziale pubblica e sull'accesso al relativo credito. Questo rilievo, infatti, corrobora l'idea che l'atto impugnato si collega a una funzione diversa da quella che il Governo esercita esclusivamente verso le Regioni e le Province autonome con gli atti di indirizzo e di coordinamento.
Da tale conclusione discende, altresì, l'assorbimento degli ulteriori profili di legittimità del decreto impugnato sollevati sul presupposto della sua qualificazione come atto di indirizzo e coordinamento.
7. Pur se, dunque, per la funzione meramente notiziale che lo caratterizza, non può rientrare, nonostante la propria autoqualificazione (espressa, peraltro, in parti esterne al contenuto dispositivo), fra gli atti (governativi) di indirizzo e di coordinamento verso le Regioni (e le Province autonome), il d.P.C.M. 28 ottobre 1988 non può essere considerato illegittimo. Infatti, proprio per la funzione che svolge, tale decreto non può essere interpretato come un atto diretto a produrre una (illegittima) novazione della fonte della norma comunitaria cui si riferisce. Né, del resto, va trascurato che, sempre in considerazione dello scopo che obiettivamente lo caratterizza, lo stesso decreto risponde pienamente al principio di « leale cooperazione » che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, presiede ai rapporti fra Stato e Regioni (o Province autonome).
Tantomeno, poi, può ritenersi che l'atto impugnato sia stato adottato inutilmente. Per un verso, infatti, nel portare a conoscenza di tutti i soggetti dell'ordinamento interno operanti nel campo dell'edilizia residenziale pubblica una norma comunitaria che è stata determinata nel suo preciso significato da una sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, il decreto impugnato rende nota nelle forme pubbliche ufficiali una norma che, a causa del suo particolare modo di definizione e delle sommarie forme di pubblicità delle suddette sentenze nell'ordinamento nazionale, potrebbe essere non esattamente conosciuta dai soggetti interni. Per altro verso, lo stesso decreto, nell'adempiere alla ricordata funzione notiziale, pone all'attenzione dei soggetti dell'ordinamento interno operanti nel campo dell'edilizia residenziale pubblica gli obblighi derivanti sul piano dell'ordinamento nazionale dall'esistenza di una norma comunitaria direttamente applicabile e prevalente su ogni altra legge interna, tanto se statale, quanto se regionale (o provinciale).

In ogni caso, proprio a causa della funzione meramente notiziale che è chiamato a svolgere, il decreto impugnato non può esser ritenuto oggettivamente idoneo ad apportare qualsivoglia lesione o a produrre qualsiasi forma d'interferenza nei confronti delle autonomie costituzionalmente garantite alle Regioni e alle Province autonome.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato dalla Provincia autonoma di Bolzano in relazione all'articolo unico d.P.C.M. 28 ottobre 1988 (Atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni ed alle Province autonome per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica ed al relativo credito dei cittadini comunitari esercenti attività di lavoro autonomo), in riferimento agli artt. 8 n. 10, 16 e 98 stat. spec. Regione Trentino-Alto Adige (d.P.R. 31 agosto 1972 n. 670) e alle relative norme di attuazione, nonché all'art. 6 d.P.R. 19 novembre 1987 n. 526 (Estensione alla Regione Trentino-Alto Adige ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano delle disposizioni del d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616).
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