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In vigore al: 11/09/2012

Corte costituzionale - Sentenza N. 245 del 05.11.1984
Riparto del fondo sanitario nazionale - Copertura dei disavanzi delle aziende di trasporto pubblico locale - Blocco delle assunzioni nelle Unità sanitarie locali

Sentenza (30 ottobre) 5 novembre 1984, n. 245; Pres. Elia – Rel. Paladin
 
Ritenuto in fatto: 1. Con ricorso notificato il 27 gennaio 1984, la Regione Veneto, in persona del Presidente pro-tempore della Giunta, rappresentato e difeso dagli avvocati Giorgio Berti, Matteo Pagnes e Giudo Viola, ha chiesto che venga dichiarata l'illegittimità costituzionale degli artt. 7, comma 13, 19, in relazione al 16, 28, 31 comma 2, e 35, comma 14, l. 27 dicembre 1983 n. 730 (”Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e plurinnale dello Stato legge finanziaria 1984”), per violazione degli art. 5, 81, comma 4, 115, 117, 118, 119, 123, 130 e 136 Cost.
a) Con l'art. 7, comma 13, l. n. 730 del 1983 si stabilisce che i disavanzi della aziende di trasporto pubblico locale, non ripianabili con i contributi regionali di esercizio, devono essere coperti dalle Regioni mediante adeguamenti tariffari o con prelievo dei fondi necessari dalle rispettive quote del fondo comune. Secondo la ricorrente, tale norma sarebbe del tutto analoga a quella contenuta nell'art. 31, comma 1, del d. l. n. 55 del 1983, convertito in l. n. 131 del 1983, e già dichiarata illegittima (nella parte appunto in cui preveda che al ripiano dei predetti disavanzi, per il 1983, dovessero far fronte le Regioni con il maggior gettito dei tributi propri), per violazione dell'autonomia finanziaria regionale ed imposizione di spesa priva della relativa copertura (sentenza n. 307 del 1983). Con ciò – a parte l'autonomo profilo di contrasto con l'art. 136 Cost. (ravvisabile nella elusione, da parte del legislatore, del giudicato costituzionale) – si riproporrebbero, nei confronti della norma impugnata, gli stessi motivi di illegittimità già evidenziati a carico del predetto art. 31. Né varrebbe in contrario rilevare che l'art. 7 della l. n. 730 indica gli ”adeguamenti tariffari” e le ”quote del fondo comune” come possibili fonti di copertura dei disavanzi in questione: poiché, per un verso, ” il fondo comune, dal punto di vista della autonoma disponibilità della regione, non può avere qualificazione e sorte diversa dai tributi propri” e, per altro verso, sulla attuale impraticabilità di aumenti delle tariffe dei servizi di trasporto pubblico locale ”si è già espressa, nella citata sentenza, la stessa Corte”.
b) L'art. 19 della l. n. 730 del 1983 proroga, per il 1984, il blocco delle assunzioni già disposto per l'anno 1983 (con carattere di generalità nell'ambito del pubblico impiego) dall'art. 9 della l. n. 130 del 1983. Lamenta, al riguardo, la ricorrente che – se pur il divieto ex art. 9 l. cit. è stato ritenuto legittimo (sempre con la menzionata sentenza n. 307 del 1983), quale misura di carattere urgente ed eccezionale – la sua reiterazione riproporrebbe ora il ”problema di compatibilità del detto blocco con i poteri della Regione”. Risulterebbero, infatti, elusi i limiti temporali che, secondo l'insegnamento della corte, debbono contraddistinguere tutte le norme che impongono ”tetti” o ”congelamenti” in materie di competenza regionale. Per di più la gravità dei limiti imposti con l'art. 19 delle nuove assunzioni da parte delle Regioni non si spiegherebbe neppure all'interno stesso della l. n. 730: la quale riconoscerebbe ai Comuni e alle Province una sfera di autodeterminazione in materia (art. 16) più ampia di quella regionale.
c) Con l'art. 28 della l. n. 730 si stabilisce, poi, che a decorrere dal 1984, qualora non siano previste misure adeguate per riassorbire il disavanzo di ciascuna unità sanitaria locale, la Regione provvede, previa diffida, ad esercitare i poteri sostitutivi attraverso il comitato regionale di controllo, ovvero richiede lo scioglimento del comitato di gestione al commissario del Governo. Secondo la ricorrente, questa disposizioni sarebbe doppiamente lesiva della attribuzioni regionali: ”sia perché determina puntualmente le modalità di funzionamento dell'organo di controllo regionale ” (con implicita qualificazione della Regione come componente indiretta di un apparato statale), ”sia perché prevede una fattispecie di controllo sostitutivo sull'organo di gestione delle U.S.L. assolutamente anomala ed eterogenea rispetto alle forme del controllo sulle U.S.L.”.
d) L'art. 29 . n. 730, a sua volta, prevede che, a decorrere dal 1984, i disavanzi di gestione delle U.S.L. siano ripianati dalla Regione; e determina le modalità di tale integrazione, cui si deve provvedere con prelievi dal fondo comune ex art. 8 l. n. 281 del 1970 e con quote di partecipazione al costo delle prestazioni. Anche a tale norma la ricorrente addebita di violare l'autonomia finanziaria (oltre che legislativa ed amministrativa) della Regione, senza prevedere un'apposita copertura finanziaria: con argomentazioni analoghe a quelle che sorreggono la denuncia di illegittimità del precedente art. 7, comma 13.
e) L'art. 31 cpv. l. n. 730 – che istituisce l'albo regionale dei fornitori del servizio sanitario nazionale e demanda al Ministro della sanità di individuare, con proprio decreto, le condizioni ed i requisiti per l'iscrizione nell'albo stesso – risulta impugnato in base ad un duplice ordine di rilievi che convergono in una complessa censura di usurpazione di attribuzioni regionali. L'istituzione stessa di un albo regionale dovrebbe, infatti, spettare alla Regione, anche in armonia con le disposizioni di principio contenute nell'art. 50 l. n. 833 del 1978. Ma soprattutto sarebbe inammissibile l'ulteriore previsione di un potere normativo del Ministro in ordine alla tenuta del detto albo ed alla iscrizione delle imprese; e ciò, sia nei confronti dell'autonomia legislativa regionale, che non potrebbe essere ridotta o condizionata da un atto di normazione secondaria (quale il decreto ministeriale), sia nei confronti della stessa attività amministrativa regionale, che ”potrebbe soggiacere soltanto ad atti di indirizzo e coordinamento da parte del Governo”.
f) L'art. 35, comma 14, riduce, infine, dal 12 al 6 % delle entrate, previste dal bilancio di competenza, il limite della disponibilità finanziarie che le Regioni possono depositare presso aziende di credito. Al riguardo, il Veneto – pur considerando che la legittimità di tale limitazione è già stata affermata con sentenza n. 162 del 1982 della Corte – ritiene che sia comunque l'imposizione della nuova misura a ledere l'autonomia finanziaria della Regione: ”poiché una indiscriminata riduzione aprirebbe la possibilità della eliminazione totale della capacità dell'ente di manovra le proprie giacenze, che ne integra la posizione giuridica e costituzionale”.
2. La Regione Trentino-Alto Adige, rappresentata e difesa dagli avvocati Giuseppe Guarino e Roland Riz, con ricorso notificato il 26 gennaio 1984, ha impugnato invece gli artt. 25, commi 2 e 3, della predetta l. n. 730 del 1983, per violazione degli artt. 4 n. 7 e 16 d.P.R. 31 agosto 1972 n. 670 (t.u. delle leggi concernenti lo Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige).
Con riguardo al comma 2 dell'art. 25, lamenta la ricorrente che la legge disponga direttamente circa l'impiego (per metà ad integrazione del finanziamento di parte corrente, per metà ad acquisto di attrezzature in conto capitale) delle somme che – secondo la norma stessa – le U.S.L. sono autorizzate a trattenere: così appunto incidendo in una materia – l'ordinamento degli enti sanitari ed ospedalieri ( in cui rientra la disciplina del funzuionamento oltrechè dell'organizzazione delle U.S.L.) – riservata alla potestà legislativa ed amministrativa della Regione, dagli artt. 4 n. 7 e 16 dello Statuto speciale.
La disciplina stabilita dal comma 3 dell'art. 25 l. n. 730 cit., e in particolar modo la disposizione dell'ultimo periodo, che impone – in caso di prestazioni sanitarie ”aggiuntive” – di instaurare ” contabilità separate”, sarebbe a sua volta incostituzionale e lesiva delle medesime attribuzioni della Regione ricorrente in quanto intenda stabilire un vincolo anche in ordine alla contabilità delle U.S.L. (dal Trentino-Alto Adige già disciplinata con propria l. n. 1 del 1981).
3. Le Province autonome di Trento e Bolzano, pure difese dagli avvocati Guarino e Ritz, hanno denunciato anch'esse – con ricorsi notificati il 26 gennaio 1984 – l'art. 25, commi 2 e 3, ed inoltre l'art. 27, commi 1 e ultimo, e (la sola Bolzano) l'art. 29 della predetta l. n. 730 del 1983, per contrasto con gli artt. 8 n. 1, 9 n. 10, 16, 54 n. 5, 78 e 80 dello Statuto speciale e relative norme attuative.
a) In ordine alla dedotta illegittimità dell'art. 25, comma 2, argomentano ulteriormente le ricorrenti che il disposto vincolo di destinazione (su somme che le Province autonome sono autorizzate a trattenere) inciderebbe non solo sulla competenza preveduta dall'art. 9 n. 10 dello Statuto (igiene e sanità, ivi compresa l'assistenza sanitaria ed ospedaliera), ma anche sull'autonomia finanziaria delle Province stesse, che si manifesterebbe sia attraverso il principio di unitarietà della finanza provinciale, per cui tutte le somme assegnate a qualsiasi titolo alla Provincia affluiscono al suo bilancio senza vincolo a specifiche destinazioni, sia nella facoltà ”di disporre alle proprie risorse, nel senso di valutarne discrezionalmente la congruità rispetto alle necessità concrete e di indirizzarle verso gli obiettivi rispondenti alle finalità istituzionali” (Corte cost. n. 162 del 1982). Inoltre – secondo la Provincia di Bolzano – sarebbe violato anche l'art. 54 dello Statuto, in forza del quale spetta alla Giunta provinciale il controllo sugli atti e sugli organi delle U.S.L., ivi compreso i controllo anche in merito sui bilanci, piani e programmi annuali e pluriennali e sulle convenzioni.
Quanto al comma 3 del medesimo art. 25, le ricorrenti a loro volta lamentano la violazione degli artt. 8 n. 1 e 16 dello Statuto (ordinamento degli uffici provinciali), per il caso che il vincolo a instaurare una contabilità separata sia da intendere riferito alla stessa Provincia. E, in secondo luogo, deducono che la disposizione sarebbe incostituzionale anche se riferita alle U.S.L. per violazione dell'art. 9 n. 10 dello Statuto, ”giacché, per quanto non disposto dalla legge regionale, alla disciplina della contabilità delle U.S.L. concorre la competenza delle Province (artt. 87 e 97 l. reg. T.A.A. 11 gennaio 1981 n. 1; art. 73 l. prov. Bolzano 26 aprile 1980 n. 8)”.
b) L'art. 27 l. n. 730 del 1983 – che detta criteri per la ripartizione del fondo sanitario nazionale – è denunciato dalle Province autonome con particolare riguardo all'ultima parte, che abroga ”il terzo periodo del comma 1 dell'art. 80 della l. n. 833 del 1978”. La disposizione abrogata – facendo seguito all'art. 51 (l. n. 833 cit.), secondo cui, tra le Regioni anche a statuto speciale, la ripartizione delle somme stanziate per il fondo sanitario va operata con delibera del CIPE, su proposta del Ministro della sanità, sentito il Consiglio sanitario nazionale – stabiliva che per il finanziamento delle due Province di Trento e Bolzano si applicasse, invece, il disposto dell'art. 78 dello Statuto Trentino-Alto Adige: con la conseguenza che la determinazione della quota di spettanza delle Province doveva venir stabilita, anno per anno, d'accordo fra Governo e Presidente della Giunta provinciale, tenendo anche conto, ”in base ai parametri della popolazione e del territorio, delle spese per gli interventi generali dello Stato, disposti nella restante parte del territorio nazionale negli stessi settori”. Ora secondo le ricorrenti – dato che il rinvio ex art. 80 l. n. 833 all'art. 78 dello Statuto speciale ”non era il frutto di una scelta discrezionale del legislatore, come tale successivamente modificabile, bensì la conseguenza costituzionalmente obbligata del rispetto della peculiare autonomia finanziaria della Provincia” – l'abrogazione della detta norma di rinvio sarebbe costituzionalmente illegittima, appunto in relazione alla richiamata nota statutaria. Corrispondentemente, sarebbe incostituzionale il comma 1 dello stesso art. 27, secondo cui la quota del fondo sanitario nazionale di competenza della Provincia autonoma va determinata senza applicare le procedure ed i criteri inderogabilmente stabiliti dall'art. 78 dello Statuto.
c) Quanto infine all'art. 29 (già impugnato dalla Regione Veneto) la Provincia di Bolzano ne denuncia analogamente l'illegittimità, poiché non solo pone a carico della Provincia l'onere stesso. Ne risulterebbero, conseguentemente, ”violate le competenze legislative ed amministrative della ricorrente in materia di igiene e sanità (artt. 9 n. 10 e 16 Statuto e relative norme d'attuazione), nonché i principi costituzionali relativi alla autonomia finanziaria e di bilancio della ricorrente (Titolo VI, e spec. art. 78)”, ove in particolare si consideri che la legge pretende di vincolare la utilizzazione di fondi affluiti nel bilancio provinciale, e dei quali la Provincia dovrebbe potere disporre autonomamente, che non provengono né da ”contributi speciali” (ex art. 119, comma 3, Cost., ed art. 79 T.A.A.), e neppure da ”quote erariali”.
4. Anche la Regione Sicilia, difesa dall'avvocato Giuseppe Fazio, non ricorso notificato il 27 gennaio 1984, ha denunciato di incostituzionalità la l. n. 730 del 1983, relativamente ai suoi artt. 7, comma 13, 25, ultimo comma, 27, 29, comma 2 e 31, per contrasto con gli artt. 15, 17, 19 e 20 dello Statuto di autonomia.
Con riferimento ai parametri statutari – che tutelano la potestà della Regione nel settore della sanità e la sua autonomia finanziaria – la ricorrente svolge argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle contenute nei ricorsi precedentemente esaminati. In particolare, circa l'art. 31 l. n. 730 – la cui denuncia è in questo caso estesa al comma 1 (non censurato dal Veneto), relativamente alla facoltà, attribuita al Ministro della sanità, di provvedere con decreto alla definizione dei capitolati della sanità, di provvedere con decreto alla definizione dei capitolati generali e speciali per forniture di beni e servizi alle U.S.L. – sottolinea la Sicilia come tale disposizione incida su materia rientrante nella propria competenza legislativa (già esercitata con l. n. 69 del 1981) sulla contabilità e l'amministrazione del patrimonio delle U.S.L. Ne risulterebbero, di conseguenza, violate ”non soltanto le norme di attuazione dello Statuto siciliano in materia di sanità di cui al d.P.R. 9 agosto 1956 n. 1111 e quindi l'art. 20 dello Statuto siciliano, ma anche l'art. 17 (lett. b) e c)) del medesimo Statuto, in applicazione del quale la potestà legislativa attribuita alla Regione nel settore della sanità incontra soltanto i limiti dei principi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato”.
5. Il solo art. 7, comma 13, della l. n. 730 ha formato, inoltre, oggetto di impugnazione da parte della Regione Campania, con ricorso in pari data proposto per il tramite degli avvocati Luigi Nerone e Giuseppe Cioffi.
Secondo la ricorrente, la disposizione in questione lederebbe l'autonomia legislativa regionale in materia di servizi di trasporto, sancita dall'art. 117, ”sia perché, stabilendo l'obbligo del ripianamento, comprime l'autonomia del legislatore regionale, quale già deliberata dai principi fondamentali contenuti nella legge quadro (art. 6) 151 del 1981, sia perché disponendo delle quote comune di cui alla l. n. 281 del 1970, invade il campo di competenza regionale in ordine alla libera ed autonoma utilizzazione di dette risorse in armonia con le scelte programmatiche regionali, in relazione del dettato dell'art. 21, comma 1, l. n. 335 del 1976”. D'altra parte, poiché il complesso delle leggi-quadro ricordate attua il precetto costituzionale dell'art. 119, ne conseguirebbe che anche con tale parametro colliderebbe la norma impugnata. Infine, risulterebbe violato anche l'art. 81, comma 4, in ragione della omessa attribuzione alle Regioni di risorse corrispondenti al nuovo onere ad esse imposto.
6. Con altro ricorso, notificato il 26 gennaio 1984, della Regione Toscana, difesa dall'avvocato Alberto Predieri, sono stati denunciati, per contrasto con gli artt. 117 e 130 Cost – oltre che gli artt. 7, comma 13, 29 e 31 (inero testo) – anche l'art. 24, comma 1 (in relazione all'art. 32, comma 5), della legge finanziaria 1984.
Dispone il citato art. 24, comma 1 punto b), che ”al fine di razionalizzare l'erogazione delle prestazioni sanitarie in regime convenzionale, gli accordi collettivi nazionali devono prevedere l'istituzione di commissioni professionali a livello regionale..., con il compito di definire gli standards medi assistenziali e fissare la procedura per le verifiche in tal modo attribuita ad una fonte anomala (l'accordo collettivo ex art. 48 l. 833) un potere organizzatorio (l'istituzione di commissioni di controllo, come le configura l'art. 32, comma 5) e un potere amministrativo di definizione di regole operative attinenti alla gestione del servizio sanitario, che competerebbero invece alle Regioni, a norma dell'art. 117 Cost. e secondo la l. n. 833 del 1978. Ci si duoli inoltre che venga demandata ad un organo speciale ed a carattere nazionale – la delegazione del Governo prevista dal comma 1 dell'art. 48 l. n. 833 del 1978 – una competenza legislativa, normativa ed amministrativa spettante alle Regioni. Si eccepisce, infine, che non sarebbero state comunque osservate le forme previste dalla l. n. 382 del 1975 per l'attività di indirizzo e coordinamento.
7. Da ultimo, le Regioni Piemonte, Emilia Romagna e Lombardia, tutte assistite dall'avvocato Valerio Onida, hanno chiesto con altretanti ricorsi di identico contenuto (notificati il 27 gennaio 1984), dichiararsi l'illegittimità degli artt. 7, comma 13, 20 e 31 l. n. 730 del 1983 (come si è visto, già raggiunti da altre impugnative) ed altresì dell'art. 7, commi 11 e 12, della stessa legge, ”in riferimento agli artt. 5, 117, 118, 119 e 81, comma 4 Cost., nonché all'art. 27 l. 5 agosto 1978 n. 468 e alle l. 10 aprile 1981, n. 151 e l. 23 dicembre 1987 n. 833”.
Con riguardo, in particolare, all'art. 7, comma 11, l. n. 730 – che determina definitivamente in Lit. 2.922 miliardi il fondo trasporti per l'anno 1982 – le ricorrenti sostengono che tale disposizione determinerebbe una riduzione retroattiva di Lit. 88,5 miliardi (destinati, dalla norma stessa, al ”finanziamento del fondo relativo all'anno 1983”): ciò ”perché il fondo per il 1982, ex artt. 27 d. l. n. 786 del 1981 e 27-quater l. conv. n. 51 del 1982, era composto dalla quota storica corrispondente alle erogazioni effettuate da Regioni ed enti locali nel 1981, e da una integrazione a carico dello Stato di L. 400 miliardi; e perché la quota storica, originariamente stimata il L. 2.500 miliardi, è oggi accertata (non ancora definitivamente) in L. 2.610,5 miliardi, cosicché il Fondo 1982 ammontava (in realtà) a 3.010,6 miliardi”. La detta ”decurtazione” concreterebbe appunto lesione della autonomia finanziaria, amministrativa e programmatoria delle regioni. analoghe ragioni di incostituzionalità motivano la denuncia del successivo comma 12 dello stesso art. 7, che eleva – da Lit. 2900 a Lit. 3.132,5 miliardi – l'importo del Fondo trasporti per il 1983. L'incremento enunciato (di Lit. 232,5 miliardi) sarebbe, in fatti, secondo le ricorrenti, meramente apparente: in quanto esso verrebbe ad essere finanziato, quanto ad 88,5 miliardi, mediante l'eguale somma di cui sarebbe stato (come già detto) diminuito il ”Fondo 1982”; e, quanto ai restanti 144 miliardi, mediante l'iscrizione di una tale somma nel bilancio dello Stato, però del 1984. Per converso, una decurtazione effettiva delle spettanze regionali discenderebbe alla abrogazione, disposta dalla norma impugnata, dei commi 5.1., 5.2. e 5.3. dell'art. 31 del d. l. n. 55 del 1983, con cui si erano previsti contributi integrativi alle aziende fino al 13% dei contributi per il 1982, e il riconoscimento di tali importi in aumento alla quota del fondo trasporti spettante a ciascuna Regione per il 1984.
8. Nei giudizi relativi a tutti gli indicati ricorsi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite dell'Avvocatura generale dello Stato: la quale, con unica ed unitaria memoria, ha sostenuto la legittimità di tutte le disposizioni impugnate, partitamente esaminate nell'ordine di sequenza nel testo legislativo.
a) Replicando in primo luogo, alle censure formulate (dalle Regioni Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna) avverso l'art. 7, comma 11, l. n. 730, ha sottolineato l'Avvocatura come, relativamente al ”Fondo trasporti 1982”, la quota parte di 500 miliardi (dei complessivi 2900 determinati dall'art. 27 d.l. n. 796) – corrispondente all'importo versato alle aziende die trasporto, nel 1981, dalle Regioni – andasse finanziata con corrispondenti riduzioni da apportare, per le Regioni a statuto ordinario, alle erogazioni sul fondo previsto dall'art. 9 della l. n. 281 del 1970. Di giusa che, seppure il fondo per il 1982 fosse stato dapprima determinato ”provvisoriamente”, le modifiche introdotte con la legge di conversione avrebbero fatto venir meno ”non solo la possibilità ma anche l'interesse” delle Regioni ad ottenere un aumento del fondo nazionale trasporti, in conseguenza dell'eventuale accertamento dell'importo dei contributi corrisposti dalle Regioni ad ottenere un aumento del fondo nazionale trasporti, in conseguenza dell'eventuale accertamento dell'importo dei contributi corrisposti alle Regioni alle aziende nel 1981, in misura maggiore di quella valutata (in Lit. 500 miliardi) per la determinazione originaria del fondo. Difatti, avvenuta l'erogazione delle somme spettanti alle Regioni sui fondi di cui agli artt. 8 e 9 l. n. 281 del 1970, sarebbe venuta meno la possibilità di finanziare alcun aumento del fondo trasporti ”che, comunque, non avrebbe potuto incrementare la complessiva disponibilità finanziaria regionale, dato che ad ogni aumento doveva corrispondere un'eguale riduzione delle erogazioni sui fondi della l. n. 281 del 1970”.
b) Quanto poi alla determinazione del ”Fondo trasporti 1983”, die cui al comma 12 dell'art. 7 in discussione, sarebbe inesatto – sempre secondo l'Avvocatura – quanto prospettato dalle ricorrenti: che cioè l'incremento di Lit. 232,5 miliardi rispetto all'importo stabilito all'art. 5 l. n. 130 del 1983 (e di Lit. 210,5 miliardi rispetto al fondo determinato per il 1982 dal comma precedente) sia meramente fittizio. A parte del fatto che l'abrogazione del comma 5,3 dell'art. 31 d. l. n. 55 del 1983 inciderebbe, se mai, sull'importo del fondo per il 1984 e non su quello per il 1983, la disposizione stessa costituirebbe la logica ed anzi necessaria conseguenza dell'abrogazione, pure disposta con la norma impugnata, dei precedenti commi 5.1 e 5.2, che prevedevano la facoltà delle Regioni di concedere i contributi per l'anno 1983 superiori a quelli concessi per il 1982 sarebbe stata, cioè, diversamente disciplinata ed ora limitata alle aziende che avessero applicato, prima del 31 dicembre 1983, gli adeguamenti tariffari previsti dal ripetuto art. 31. d. l. n. 55 del 1983: al finanziamento di questa facoltà essendo quindi ”destinato l'incremento – come si è detto di 210,5 miliardi – rispetto al fondo del 1982”, che sarebbe perciò ”effettivo e reale”. Si tratterebbe, del resto, non già di un onere imposto alle Regioni ma di una facoltà, ”perché anche il contributo integrativo oggi previsto dall'art. 7 comma 12, costituirebbe, come il contributo già previsto dai commi 5.1. e 5.3. art. 31 d. l. n. 55 del 1983, frutto di autonomia determinazione regionale (sent. n. 307 del 1983, motivazione n. 16)”. Pertanto – conclude, sul punto, l'Avvocatura – essendo certamente nella facoltà discrezionale dei competenti organi regionali contenere l'erogazione dei contributi aggiuntivi in parola nei limiti della assegnazione spettante alla Regione sul fondo nazionale trasporti, ”deve in ogni caso escludersi che la norma impugnata abbia imposto alle Regioni un onere senza indicare i mezzi per farvi fronte”.
c) Anche relativamente al comma 13 dell'art. 7, i rilievi di illegittimità (formulati dalle Regioni Toscana, Piemonte, Veneto e Campania) sarebbero – ad avviso dell'Avvocatura – analogamente privi di fondamento.
Il meccanismo di copertura dei disavanzi delle aziende di trasporto, previsto dalla norma di questione, risulterebbe significativamente diverso da quello (sub art. 31. d. l. n. 55 del 1983) censurato dalla Corte con sentenza n. 307 del 1983. Infatti, - si afferma – ”lo strumento con il quale le Regioni devono provvedere non grava più in prima linea sui bilanci regionali, ma è costituito essenzialmente dalla deliberazione di idonei adeguamenti tariffari; e, solo in via condizionata ed eventuale, le Regioni possono provvedere utilizzando le somme assegnate dallo Stato alla Regione senza vincolo a specifica destinazione”.
Né potrebbe dirsi, d'altra parte, violato l'art. 81 Cost.: poiché ”la norma non impone alla Regione un onere nuovo, da coprire con l'utilizzo del fondo comune di cui all'art. 8 della l. n. 281 del 1970; trattandosi in effetti di onere non imposto ma derivato esclusivamente dal modo – discrezionalmente stabilito dalla Regine medesima – nel quale sia stato esercitato il potere regionale di determinazione della tariffe”. E quindi sarebbe del tutto conforme ai principi della finanza pubblica che, per la copertura della relativa spesa, siano utilizzati fondi affluiti nel bilancio regionale senza vincolo a specifica destinazione.
d) Con riguardo alla disposizione dell'art. 19 l. n. 730, denunciata dal Veneto, oppone ancora l'Avvocatura che proprio sulla base dei principi affermati nella richiamata sentenza della Corte n. 307 del 1983 emergerebbe con evidenza l'infondatezza dell'odierna questione. Difatti il carattere ”transitorio” del blocco delle assunzioni non verrebbe certo mento per il solo fatto della sua proroga: quel che rileva essendo l'esigenza straordinaria di freno alla dilatazione della spesa pubblica, che giustificò il divieto di assunzioni dell'anno 1983 e lo giustifica ancora nell'anno 1984: per un lasso temporale comunque ben circoscritto e non senza possibilità di deroga in caso di necessità.
e) Anche l'art. 24 l. n. 730, impugnato dalla Toscana, si sottrarrebbe – ad avviso dell'Avvocatura – ad ogni rilievo di illegittimità.
La detta disposizione si limiterebbe a modificare l'art. 48 l. n. 833 del 1978, che già prevedeva la stipulazione nella sede nazionale di convenzioni regolanti il rapporto tra la Regione ed i medici convenzionati. E ciò al solo fine di ”assicurare la partecipazione della categoria dei medici convenzionati alla determinazione delle forme di controllo sulla attività dei medici stessi, già previste dal n. 8 dell'art. 48 l. n. 833 del 1978 nella sua originaria formulazione”.
f) Quanto all'art. 25, comma 2, l. cit., l'Avvocatura ne sostiene (in contrasto con le opposte conclusioni della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome) la piena conformità ai parametri costituzionali evocati: argomentando che la potestà legislativa della Regione in materia di ordinamento degli enti sanitari ed ospedalieri (art. 4 n. 7 Statuto) abbraccerebbe in questo campo la predisposizione delle strutture ed i modi del loro agire, ma non i contenuti di questo, onde sarebbe ad essa ”estrenea la predeterminazione in sede legislativa o amministrativa, di criteri per l'impiego delle risorse spettanti alle unità sanitarie locali”. Né la destinazione impresa dalla norma in questione, quanto alle risorse trattenute dalle U.S.L., potrebbe contrastare con il potere di controllo sui bilanci di queste. Poiché ”per sé, questo potere, in quanto manifestazione del più generale potere di controllo sugli enti locali”, non implicherebbe ”anche quello di predeterminare normativamente l'impiego delle risorse da parte degli enti controllati”.
Risolutiva sarebbe infine (contro la prospettata violazione dell'art. 81 Cost.) la considerazione che, ”da un punto di vista logico”, non vi sarebbe differenza ”tra assegnare alle Regioni somme da destinare separatamente al finanziamento di due diversi tipi di spesa (corrente e in conto capitale) e disporre invece che le somme (di cui era preveduto fossero versate all'entrata del bilancio dello Stato e di cui ora si prevede che le Regioni le trattengano) vengano dalle stesse destinate in predeterminate misure ai due diversi tipi di spesa”. La norma pertanto non si discosterebbe dal sistema generale di finanziamento del servizio sanitario nazionale, caratterizzato da interni vincoli di destinazione (e tale perciò da porsi al di fuori del principio enunciato dall'art. 21 l. n. 335 del 1976) ed avrebbe la sua ragione giustificatrice nell'avere la legge riforma sanitaria concepito il servizio sanitario nazionale come un complesso di funzioni unitarie, sia pure attuato a diversi livelli, da Stato, Regioni ed enti locali in rapporto al quale ”compete dunque allo Stato di predeterminare su scala nazionale e regionale l'ammontare delle risorse da impegnare per garantire a tutti i cittadini certi standards di prestazioni sanitarie (artt. 3, comma 2; 51, comma 2; e 53 l. n. 833 del 1978)”.
g) Relativamente al successivo comma 3 dello stesso art. 25, l'Avvocatura replica in particolare alla Regione Sicilia che la disposizione impugnata – non imponendo oneri (per i quali occorra una previsione di copertura, ma attribuendo invece a tutte le Regioni una mera facoltà (che esse possono esercitare attingendo alle loro disponibilità) – ”tende ad ampliare anziché a restringere la sfera di autonomia delle Regioni, a statuto sia ordinario che speciale” e quindi anche della stessa Sicilia.
E, quanto alle ulteriori censure della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome, oppone ancora l'Avvocatura che la prescritta instaurazione di una contabilità separata da parte delle stesse Regioni e Province o delle U.S.L., in quanto eroghino prestazioni aggiuntive, costituirebbe ”nulla più che la specificazione di un principio di contabilità delle U.S.L.”, non diversamente da quelli stabiliti dall'art. 50 l. n. 833 del 1978, dal d.P.R. n. 595 del 1980, in base all'art. 9 d. l. n. 633 del 1979, conv. in l. n. 33 del 1980, e dall'art. 35 della l. n. 119 del 1981.
h) Anche la questione di legittimità dell'art. 27 (sulla ripartizione del fondo sanitario nazionale), quale prospettata dalle due Province autonome, sarebbe priva di fondamento.
Ad avviso dell'Avvocatura, la detta previsione andrebbe comunque diversamente interpretata, per modo che la disposizione stessa verrebbe a confermare la sola applicabilità dell'art. 51 della l. n. 833 del 1978. Tuttavia – soggiunge l'Avvocatura – abbia l'art. 27 ultimo comma della l. n. 730 modificato o non il precedente assetto normativo, ”non sarebbe comunque in contrasto con l'art. 78 dello Statuto il risultato cui si perviene e cioè che anche alle due Province si applichino criteri e procedimenti di determinazione delle quote prevedute dall'art. 51, comma 2 l. n. 833 del 1978 ed ora dall'art. 27, comma 1 l. n. 730 del 1983”. Lo spostamento dell'attività di assistenza sanitaria svolta dalle due Province, dal sistema di finanziamento preveduto dall'art. 78 St. a quello configurato dall'art. 51 l. n. 833 del 1978, sarebbe infatti giustificato dall'interesse nazionale che si è voluto realizzare con la legge di riforma.
i) Quanto alle censure di illegittimità formulate dalla Regione Veneto nei riguardi dell'art. 28 l. n. 730, esse – secondo l'Avvocatura – sarebbero in primo luogo inammissibili: poichè, se ciò che si contesta è – come sembra – la previsione di un tipo di controllo diverso da quello previsto dall'art. 130 Cost., ”verrebbe in tal modo denunciata la violazione di norme costituzionali poste a garanzia dell'autonomia di Comuni e Province, che non realizzerebbe quindi l'invasione della sfera di competenza assegnata alla Regione. Né tale lesione potrebbe individuarsi nell'asserita irrazionalità della previsione di due alternative misure di controllo, sostitutiva e mediante scioglimento dell'organo”.
A parte ciò, le doglianze della ricorrente sarebbero comunque infondate ”poiché né l'art. 130 né altri articoli della Costituzione attribuiscono alle Regioni poteri normativi per quanto riguarda la determinazione dei modi di esercizio del controllo; per la quale è anzi posta, ad ulteriore garanzia dell'autonomia degli enti locali, una riserva di legge statale”. Né sussisterebbe la denunciata irrazionalità delle due misure di controllo, che sono logicamente commisurate ai diversi presupposti che le giustificano. E l'attribuzione ad un organo statale – quale il Commissariato di Governo – del potere di scioglimento del comitato di gestione, da esercitarsi per altro su iniziativa dell'organo regionale, troverebbe la sua ragione – come nel caso dello scioglimento dei consigli comunali – nel fatto che l'organo direttivo delle U.S.L. è previsto e disciplinato dalla legge statale.
l) Parimenti infondata – ad avviso dell'Avvocatura – sarebbero le questioni che involgono la legittimità dell'art. 29 l. n. 730 sul ripiano dei disavanzi delle U.S.L.
Le argomentazioni delle Regioni ricorrenti (Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto, Limbardia, Sicilia) urterebbero infatti contro il decisivo rilievo che la correlativa responsabilità finanziaria sarebbe del tutto conseguente alla competenza riconosciuta alle Regioni, in materia di assistenza sanitaria, con il connesso potere-dovere di assicurare la corrispondenza tra i costi del servizio ed i relativi benefici. In tale contesto, la disposizione del precedente art. 26, che ha accollato al bilancio statale i disavanzi delle unità sanitarie locali accertati al 31. dicembre 1983, avrebbe portata eccezionale; e l'art. 29 in discussione, che dispone diversamente per il 1984, confermerebbe appunto la eccezionalità e la temporaneità dell'accollo.
Né violazione dell'autonomia finanziaria potrebbe, d'altra parte, individuarsi nella indicazione, contenuta nel predetto articolo, delle risorse finanziarie da utilizzare per il ripiano dei disavanzi di gestione delle U.S.L.. L'indicazione stessa potrebbe anzi apparire superflua, essendo ovvia la necessità di utilizzare ”in primo luogo” le disponibilità del fondo sanitario nazionale, in relazione alla loro specifica destinazione; ed essa avrebbe la sola funzione di ”precisare che l'esaurimento di quelle disponibilità non costituisce il limite della responsabilità finanziaria della Regione”.
Infine, ai rilievi della Provincia di Bolzano oppone analogamente l'Avvocatura che anche le Province autonome – al pari delle Regioni – sarebbero chiamate a sopportare il costo di una funzione propria; mentre l'indicazione dei mezzi con cui farvi fronte, se riferita alle complessive disponibilità di parte corrente delle quote del fondo ad esse attribuite ed alle disponibilità derivanti dalle entrate previste dal comma 2 dell'art. 25, non imprimerebbe a queste risorse una destinazione che esse già non abbiano.
m) A sostegno della legittimità dell'art. 31 l. n. 730 (contestata da Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Sicilia, Toscana e Veneto), argomenta poi l'Avvocatura che le forme e i modi prescritti in via generale dalla l. n. 382 del 1975, per l'esercizio delle funzioni di indirizzo e coordinamento, non costituirebbero garanzia costituzionale dell'autonomia regionale, per cui ben potrebbero essere derogate da legge successiva che stabilisca (come nella specie) forme e modi diversi, ugualmente rispettosi dell'autonomia amministrativa delle Regioni, in relazione a specifiche esigenze della materia da questa legge disciplinata.
n) Sarebbe infondata, infine, l'ultima questione di legittimità dell'art. 34, comma 14, sollevata dalla Regione Veneto: poiché tale norma si limiterebbe ad introdurre una mera modificazione quantitativa del limite, già riconosciuto legittimo dalla Corte, quanto alle disponibilità finanziarie che le Regioni possono depositare presso le aziende di credito.
9. Alle controdeduzioni dell'Avvocatura hanno la loro volta replicato le Regioni ricorrenti (eccettuata la Campania) e la Provincia di Bolzano, con memorie aggiunta depositate nell'imminenza dell'udienza di discussione.
In particolare:
- relativamente alle questioni sub art. 7, comma 11, hanno opposto le Regioni Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna che sarebbe frutto di palese equivoco interpretativo l'ipotesi di un sopravvenuto ”difetto di interesse” all'aumento del ”fondo trasporti” per il 1982. Infatti la norma di questione – che non tiene conto del riaccertamento in aumento della ”quota storica” ai fini della definitiva determinazione del fondo sopradetta – non farebbe venire mento il meccanismo di recupero, a carico del fondo comune, dell'intera ”quota storica: con la conseguenza che lo Stato avocherebbe a sé l'importo di Lit. 88,5 miliardi non utilizzato per il 1982, per il finanziamento del fondo 1983;
- in ordine alla impugnativa dell'art. 7, comma 13, l. n. 730, è stato tra l'altro eccepito dalla Regione Veneto, circa la pretesa facoltà delle Regioni di ricorrere ad adeguamenti tariffari (per la copertura dei disavanzi in questione), che essa sarebbe smentita dallo stesso legislatore statale: dal momento che il d. l. 15 febbraio 1984 n. 10, decaduto ma ripresentato come d. l. 17 aprile 1984 n. 70, ha limitato gli incrementi delle tariffe e dei prezzi amministrati al tasso massimo di inflazione indicato nella relazione previsionale del Governo, affidando al CIP l'emanazione di direttive vincolanti nei confronti delle amministrazioni regionali e locali in ordine al tetto degli incrementi per i vari prezzi; e il CIPE, con direttiva n. 10 del 1984, ha stabilito che le tariffe dei trasporti debbono restare ferme agli attuali livelli;
- con riguardo alla questione sub art. 25, comma 2 l. n. 730, ha aggiunto la Provincia di Bolzano che ogni contrario rilievo dell'Avvocatura urterebbe contro l'assorbente considerazione che la disciplina censurata ”non concerne già somme provenienti dal fondo sanitario nazionale ex art. 80 l. n. 833 del 1978, iscritte nel bilancio dello Stato ed assegnate alla Provincia: bensì somme originariamente proprie della Provincia (e da essa trattenute)”;
- con riferimento all'obbligo del ripiano dei disavanzi 1981, ex art. 29, è stato ulteriormente sottolineato – da Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna – come, nel contesto dei principi fissati dalla legge quadro in materia di sanità, sarebbe illogico ed illegittimo obbligare le Regioni a coprire i disavanzi U.S.L., sia che dipendano da obiettiva insufficienza delle ricorse assegnate al fondo sanitario nazionale rispetto al fabbisogno incomprimibile, sia che, in ipotesi, derivino da determinazioni discrezionali, delle unità sanitarie locali (che conducano ad eccedenze di spesa rispetto alle assegnazioni). Nel primo caso, incomberebbe infatti allo Stato (l'unico, oltre tutto, ad averne i mezzi) la responsabilità di adeguare le risorse al fabbisogno; nel secondo caso sarebbero, invece, le amministrazioni locali a dover essere chiamate a rispondere del loro operato e ricondotte all'osservanza dei vincoli finanziari (artt. 50, comma 4, e 51, comma 1, l. n. 833 del 1978).
10. Alla pubblica udienza del 29 maggio 1984 – dopo la relazione congiunta del giudice Livio Paladin – gli avvocati delle ricorrenti e gli Avvocati dello Stato Giorgio Azzariti e Paolo Vittoria hanno ulteriormente ribadito le rispettive istanze e deduzioni.
 
Considerato in diritto: 1. I dieci giudizi in esame si prestano ad essere riuniti e decisi con unica sentenza, poiché riguardano tutti la 1. 27 dicembre 1983 n. 730, intitolata ”Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1984)”. Inoltre i ricorsi introduttivi dei giudizi stessi interferiscono in più punti fra di loro, sebbene sollevino questioni in parte diverse, sia quanto alle norme impugnate sia quanto ai motivi rispettivamente proposti.
2. Seguendo l'ordine testuale della 1. n. 730, vanno prese anzitutto in considerazione le questioni concernenti il finanziamento dei trasporti pubblici locali: fra le quali presenta primaria importanza l'impugnazione dell'art. 7, comma 13, congiuntamente promossa dalle Regioni Veneto, Sicilia, Campania, Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia, mediante i ricorsi menzionati in narrativa.
L'art. 7, comma 13, stabilisce che ”i disavanzi delle aziende di trasporto pubblico locale, non ripianabili con i contributi regionali di esercizio di cui all'ari. 5 1. 10 aprile 1981 n. 151, devono essere coperti dalle regioni o province autonome mediante adeguamenti tariffari stabiliti con il concorso degli enti locali interessati o con prelievo dei fondi necessari dalla quota del fondo comune di cui all'art. 8 1. 16 maggio 1970 n. 281, per le regioni a statuto ordinario, e dalle corrispondenti entrate di parte corrente previste dai rispettivi ordinamenti per le regioni a statuto speciale o province autonome. Senonché le ricorrenti Regioni di diritto comune censurano la disposizione che le obbliga a coprire i disavanzi, facendoli gravare sulla finanza regionale, nella misura occorrente per surrogare o per integrare gli ”adeguamenti tariffari”; e, sotto questo aspetto, denunciano in particolar modo la violazione degli artt. 81, comma 4, 117 e 119 Cost.
Da un lato, infatti, la norma impugnata comporterebbe oneri a carico dei loro bilanci, senza assegnare alle Regioni le somme occorrenti per farvi fronte; d'altro lato, la norma stessa vincolerebbe ad una specifica destinazione mezzi finanziari liberamente disponibili da parte regionale, nell'esercizio della loro autonomia legislativa. Di più: la disciplina in esame verrebbe in tal senso a contraddire puntualmente una pronuncia della Corte, adottata mediante la sentenza n. 307 del 1983, nella parte in cui questa ha annullato Pari. 31, comma 1, lett. a), del d. l. n. 55 del 1983. Rispetto alla disposizione così dichiarata illegittima — che imponeva alle Regioni di integrare ”con il maggior gettito dei tributi propri” F ”eventuale differenza tra la quota regionale derivante dalla ripartizione del Fondo nazionale trasporti per l'anno 1983 e la somma delle erogazioni effettuate allo stesso titolo alle aziende nel 1982” — l'art. 7, comma 13, 1. n. 730 del 1983 implicherebbe novità puramente formali, insuscettibili di sanare il vizio allora riscontrato dalla Corte;
ed anzi sarebbe a tal punto incompatibile con il ”giudicato costituzionale”, da determinare — secondo il ricorso della Regione Veneto — la violazione dello stesso art. 136 Cost. Né gli ”adeguamenti tariffari” potrebbero bastare allo scopo, consentendo alle Regioni di rendere del tutto inoperante la previsione denunciata: sia perché le Regioni non sarebbero in grado di incidere sulle tariffe — stando al testuale disposto dell'art. 7, comma 13 — senza il ”concorso degli enti locali interessati”; sia perché si tratterebbe di ripianare non soltanto i deficit degli anni a venire, ma anche i disavanzi già prodottisi in passato; sia perché occorrerebbe provvedere al ripiano per ogni singola azienda deficitaria, laddove le Regioni non disporrebbero di alcuna competenza — specialmente nel caso dei servizi direttamente assunti dagli enti locali — quanto alla gestione ed alle spese delle aziende stesse.
Così ricostruiti, i ricorsi vanno in questa parte accolti (il che rende superfluo esaminare l'ulteriore denuncia proposta dalla Regione Sicilia, per pretesa violazione della competenza regionale configurata dall'art. 15, comma 3, del rispettivo Statuto speciale). Per averne la dimostrazione, basta rileggere la motivazione svolta dalla sentenza n. 307, nel risolvere l'analogo problema posto dal citato art. 31, comma 1, lett. a), del d. l. n. 55 del 1983. Già in quell'occasione, la Corte ha ritenuto che l'imporre alle Regioni obblighi del genere contrasti anzitutto con ciò che la Costituzione prescrive nel comma 2 dell'art. 119, ossia che le Regioni dispongano di ”tributi propri” (oltre che di ”quote di tributi erariali”), per fronteggiare autonomamente ”le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali”, in chiara contrapposizione ai ”contributi speciali” previsti dal comma 3, in ordine ai quali può essere invece vincolato l'esercizio della legislazione e dell'amministrazione regionale; sicché non può ammettersi che, in nome del coordinamento finanziario, lo Stato faccia fronte ad una spesa di interesse nazionale ricorrendo ai tributi regionali, senza con ciò vulnerare l'autonomia legislativa locale assieme all'autonomia finanziaria considerata sul versante delle uscite. Nel porre a carico delle Regioni la spesa in questione — concludeva sul punto la detta sentenza — sarebbe dunque occorso che il legislatore statale disponesse un'apposita copertura finanziaria: in difetto della quale, dalla lesione degli arti. 117 e 119 discendeva altresì la violazione dell'art. 81, comma 4 Cost.
Ora, tutti questi assunti sono sostanzialmente riferibili al problema in esame, sebbene la norma dettata dall'ari 7, comma 13, 1, n. 730 del 1983 riguardi il « fondo comune» (ovvero le corrispondenti entrate delle Regioni o Province a statuto speciale) anziché i tributi regionali ”propri”. Infatti, non vi è dubbio che le quote dei tributi erariali in base alle quali si determina l'ammontare del fondo predetto — ai sensi dell'art 8 1. 16 maggio 1970 n. 281 — rientrino anch'esse nella previsione del primo capoverso dell'art. 119 Cost.; e la parificazione fra i cosiddetti «tributi propri» ed il «fondo comune» risulta confermata, a questi effetti, sia dall'art. 1 della stessa 1. n. 281 del '70, sia dall'art. 8, comma 1, 1. 19 maggio 1976 n. 335. In entrambe le ipotesi, dunque, si tratta di risorse autonomamente utilizzabili dalle Regioni, per assolvere all'intero complesso delle loro « funzioni normali » — secondo le priorità determinate dagli organi regionali di governo — senza alcun vincolo a specifiche destinazioni: tanto più quando il legislatore statale abbia già provveduto alle spese di interesse nazionale mediante appositi fondi speciali, come quello «per il ripiano dei disavanzi di esercizio» delle aziende di trasporto, istituito dall'art. 9 della «legge quadro» n. 151 del 1981.
 
D'altra parte, non giova replicare —- come fa l'Avvocatura dello Stato — che la disciplina in discussione (diversamente dall'art 31, comma 1, lett. a), d. l. n. 55 del 1983) farebbe cadere l'accenno sugli « adeguamenti tariffari » : cui le Regioni sarebbero comunque tenute, in virtù del principio di corrispondenza fra le tariffe ed il « costo effettivo del servizio », già stabilito dall'art 6, comma 1, lett. b), della ricordata « legge quadro » sui trasporti pubblici locali. La norma richiamata dall'Avvocatura prescrive bensì la copertura dei costi attraverso «i ricavi del traffico... derivanti dall'applicazione delle tariffe minime stabilite dalla regione», ma «nella misura che verrà stabilita annualmente per le varie zone ambientali omogenee del territorio nazionale con decreto del Ministro dei trasporti...»; e dal recente decreto ministeriale 13 giugno 1983 (pubbl. in G.U. 20 agosto 1983 n. 228) si desume che le aliquote minime oscillano fra il 35% dei costi (relativamente ai trasporti extraurbani del centro-nord) e il 17 % dei costi medesimi (relativamente ai trasporti, urbani nella città di Napoli).
Ad aggravare il caso, è anzi sopraggiunta — in attuazione del d. l. n. 10 del 1984 (recante, fra l'altro, misure urgenti in materia di tariffe) — la delibera n. 10 del 1984 del Comitato interministeriale prezzi (tuttora valida ai sensi della 1. n. 219 del 1984) la quale ha stabilito, al punto 4), che per l'anno in corso «le tariffe del trasporto urbano e delle autolinee in concessione... dovranno essere mantenute ferme agli attuali livelli». Ma l'art 7, comma 13, 1. n. 730 del 1983 dev'esser dichiarato costituzionalmente illegittimo, pur senza utilizzare quest'ultimo ordine di considerazioni (tenuto conto che la predetta delibera del CIP è stata a sua volta impugnata dalla Regione Toscana e che la Corte deve ancora pronunciarsi in proposito). Indipendentemente dall'attuale blocco delle tariffe dei servizi di trasporto pubblico locale, la denunciata norma si pone infatti in contrasto — per tutte le ragioni in precedenza esposte con gli artt. 117, 119 ed 81, comma 4, Cost. (mentre rimangono assorbite le ulteriori censure prospettate dai ricorsi in esame).
3. Le Regioni Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia contestano inoltre la legittimità costituzionale dei commi 11 e 12 dell'art. 7, rispettivamente concernente l'ammontare del Fondo nazionale per i trasporti quanto agli anni 1982 e 1983.
Più di preciso, il comma 11 dell'art. 7 stabilisce che «il fondo nazionale per i trasporti per l'anno 1982, determinato in via provvisoria in lire 2.900 miliardi dall'art. 27 d. l. 22 dicembre 1981 n. 786, convertito in l. con modificazioni, dalla l. 26 febbraio 1982 n, 51 è definitivamente determinato in lire 2.922 miliardi»; ed aggiunge che «gli importi di cui al comma 2 dell'art. 27 dello stesso d.l. non utilizzati per lire 88,5 miliardi per la determinazione definitiva del predetto fondo, vengono destinati al finanziamento del fondo relativo all'anno 1983 ». Così disponendo, però, la disciplina impugnata lederebbe — secondo le Regioni ricorrenti — l'autonomia regionale, come pure il comma 4 dell'art. 81 Cost., dal momento che l'importo, del fondo verrebbe in tal modo fissato al di sotto della misura risultante da una corretta applicazione dell'art. 9 della «legge quadro» sui trasporti pubblici locali.
Effettivamente, il comma 2 dell'art. 9 l. cit. aveva previsto die il fondo in questione fosse « dotato per il 1982 di un importo pari a quello corrisposto a qualsiasi titolo per Panno 1981 dalle regioni, dalle province e dai comuni, direttamente o indirettamente, in favore delle aziende di cui al comma 1 e per le finalità ivi considerate » ; ed il comma 3 aveva a sua volta disposto che «per il 1982 e per gli anni successivi detto importo» venisse «modificato anche in relazione all'incremento della componente prezzi nella variazione del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato, verificatasi nell'anno precedente e risultante nella relazione generale sulla situazione economica del Paese». Ma la definizione della cosiddetta quota storica del fondo, corrispondente al complesso delle precedenti assegnazioni regionali, provinciali e comunali, risultò molto complessa e fu ritardata nel tempo; sicché l'art. 27, comma 1, d. l. n. 786 del 1981, ad oltre otto mesi dall'entrata in vigore della «legge quadro», si limitò ad operare una determinazione provvisoria, nella misura di 2.900 miliardi, pari alla somma della « quota storica » quantificata in 2.500 miliardi e di ulteriori 400 miliardi corrisposti dallo Stato a titolo di aumento del 16 %, per compensare l'intervenuto incremento dei prezzi (ma già diversamente — per dichiarazione dello stesso legislatore statale — da quanto in origine previsto nel citato art. 9, comma 3). Ed è soltanto in virtù della legge (finanziaria 1984 che si è giunti alla determinazione definitiva, con una maggiorazione di 22 miliardi rispetto all'importo provvisorio: maggiorazione per altro insufficiente — stando ai tre ricorsi in discussione — in quanto l'entita effettiva della «quota storica» era stata nel frattempo valutata in 2.610,5 miliardi, superando di 88,5 miliardi l'importo fissato dalla norma impugnata, che invece ha stornato quest'ultima somma, destinandola al finanziamento del fondo per il 1983.
Con ciò — come si vede — l'intera questione finisce per vertere sugli aspetti quantitativi della determinazione del fondo trasporti per il 1982, con particolare riguardo alla cosiddetta quota storica del fondo medesimo. In ultima analisi, anche l'Avvocatura dello Stato affronta il problema in  tale prospettiva, sia quando mette in dubbio l'interesse delle ricorrenti ad ottenere un aumento del fondo trasporti (che verrebbe comunque ad incidere sulla finanza regionale, per mezzo di un'equivalente contrazione delle entrate previste dalla 1. n. 281 del 1970), sia quando sostiene che la norma impugnata non avrebbe comunque effettuato « alcuna riduzione retroattiva delle disponibilità finanziarie delle Regioni ». E le controdeduzioni della difesa regionale non alterano affatto i termini della controversia, in quanto si limitano ad argomentare che il « fondo comune » sarebbe già stato decurtato della somma che la legge finanziaria 1984 ha trasferito dal fondo trasporti per il 1982 al corrispondente fondo per il 1983.
Tuttavia, questa Corte non è dell'avviso che censure così prospettate fondate o meno che siano sul piano fattuale, bastino a concretare una lesione dell'autonomia costituzionalmente garantita alle Regioni, né una violazione del precetto che impone la copertura finanziaria degli oneri gravanti sulla finanza pubblica allargata. Quanto al comma 4 dell'art. 81 Cost., non si può dire che le somme in questione fossero già state determinate ed assegnate alle Ragioni, per esser poi ridotte al momento della loro materiale erogazione. Al contrario, la definitiva determinazione di esse, comunque disposta in misura superiore alla determinazione provvisoria del dicembre '81, non ha avuto luogo se non per effetto della norma che le tre Regioni ricorrenti denunciano nel presente giudizio. Se dunque, in precedenza, le Regioni stesse hanno stanziato ulteriori contributi per il ripiano di disavanzi di esercizio riguardanti le aziende di trasporto pubblico locale, ciò ha rappresentato il frutto di loro autonome scelte, concretate mediante il ricorso ad entrate regionali già disponibili allo scopo: senza di che le leggi locali di spesa avrebbero violato a loro volta il comma 4 dell'art. 81, visto che oneri del genere non possono venire legittimamente fronteggiati con fondi « derivanti da entrate già previste dalla normazione» statale, ma non ancora assegnati alle amministrazioni regionali, a conclusione dei necessari « adempimenti procedurali » (come questa Corte ha precisato nella sentenza n. 54 del 1983).
D'altro lato, quanto all'autonomia regionale in genere ed all'autonomia finanziaria in particolare, la Costituzione non ha certo vietato che nuove leggi statali intervengano a modificare la legislazione preesistente, anche per ciò che riguarda i proventi attribuiti dallo Stato alle Regioni;
ed il mancato o incompleto rispetto degli affidamenti che il legislatore statale abbia dato alle amministrazioni regionali si presta — in ipotesi — a venir censurato sul piano politico, ma non si risolve necessariamente, secondo l'ordinamento italiano, in un fattore d'illegittimità costituzionale. La ricordata sentenza n. 307 del 1983 ha chiarito, in proposito, che « l'attribuzione alle regioni dei mezzi finanziari necessari per il perseguimento delle loro finalità» non «è definita dal precetto costituzionale in termini quantitativi; essa va, nel tempo, costantemente adeguata alle concrete esigenze di espletamento delle funzioni regionali, nei limiti della compatibilità con i vincoli generali nascenti dalle preminenti esigenze della finanza pubblica nel suo insieme» ed alla sola condizione « che non venga gravemente alterato il necessario rapporto di complessiva corrispondenza... fra bisogni regionali e mezzi finanziari per farvi fronte». Il che, tuttavia, non è stato dedotto nel caso che ora è in esame.
Se mai, altre dovrebbero essere le conclusioni del discorso, qualora la denunciata riduzione del fondo trasporti per il 1982 si fosse accompagnata all'incondizionato obbligo di coprire disavanzi delle aziende di trasporto pubblico locale, immediatamente posto a carico della finanza regionale propria; ma l'annullamento del comma 13 dell'art. 7, determinato dalla presente decisione, esclude in partenza il verificarsi di siffatti pregiudizi. Agli specifici fini del sindacato spettante a questa Corte, la proposta impugnativa risulta quindi infondata in tutti i suoi aspetti.
4. Considerazioni analoghe valgono anche in ordine al comma 12 dell'art. 7, per cui « l'importo di L. 2.900 miliardi del fondo nazionale per i trasporti relativo all'anno 1983, di cui al comma 2 dell'art. 5 l. 26 aprile 1983 n. 130, è elevato a L. 3.132,5 miliardi, di cui L. 144 miliardi sono iscritte nel bilancio dello Stato per l'esercizio finanziario 1984 ». Al che si aggiunge l'abrogazione del « commi 5.1, 5.2 e 5.3 dell'art. 31 d. l. 28 febbraio 1983 n. 55, convertito in legge, con modificazioni, dalla l. 26 aprile 1983 n. 131 »; mentre le Regioni vengono facoltizzate a «corrispondere un contributo per il ripiano del disavanzo di esercizio relativo all'anno 1983 superiore a quello attribuito nell'anno 1982 esclusivamente alle aziende che hanno applicato, e per le quali siano in atto al 31 dicembre 1983, gli adeguamenti tariffari previsti dall'ari. 31 del predetto d. l. 28 febbraio 1983 n. 55».
I tre ricorsi in esame deducono, per un primo verso, che l'incremento del fondo per il 1983 — rispetto all'importo di 2.900 miliardi, già stabilito dall'art. 5 della legge finanziaria n. 130 — sarebbe solo fittizio e non soddisferebbe la promessa rivalutazione del fondo medesimo, di cui all'art. 9, comma 3, della «legge quadro» sui trasporti pubblici locali:
poiché la maggior somma di 232,5 miliardi sarebbe destinata in parte (ossia nella misura di 144 miliardi) al fondo trasporti per il 1984 e nella parte residua corrisponderebbe alla cifra di 88,5 miliardi, che l'11 comma dell'art. 7 ha trasferito dal fondo trasporti del 1982 al corrispondente fondo del 1983. Per un secondo verso, la disposta abrogazione dell'art. 31, commi 5.1., 5.2. e 5.3., del d. l. n. 55 del 1983 verrebbe a privare le Regioni di un ulteriore incremento del 13 %,. previsto appunto dalle norme abrogate, riducendo di fatto l'incremento stesso ad una misura che i ricorsi considerano pari al 4,9 % del fondo in discussione. Ma, sotto entrambi gli aspetti, la questione si dimostra non fondata.
Per respingere la prima impugnativa, sono risolutivi gli argomenti esposti relativamente all'art. 7, comma 11; ed anzi la conclusione dell'infondatezza s'impone a fortiori, dal momento, che la definitiva determinazione del fondo trasporti per il 1983 nell'importo di 2.900 miliardi, quale era stata effettuata dall'art. 5 della legge finanziaria n. 130, non ha formato oggetto di alcuna censura regionale (sebbene già in quell'occasione il « fondo nazionale » non fosse stato rivalutato per nulla, al confronto con l'importo provvisoriamente stabilito per il 1982). Circa il secondo motivo di ricorso, la Corte deve invece rilevare die esso trae lo spunto da una lettura parziale ed inesatta dell'art. 31, commi 5.2. e 5.3., del d.l. n. 55, come integrato dalla legge di conversione n. 131 del 1983. Ai sensi del comma 5.2., il previsto incremento dei contributi regionali integrativi risultava non già equivalente ma «non superiore al 13 % della quota attribuita nel 1982 a ciascuna azienda » ed era facoltizzato nel solo caso che si verificasse il concorso di tre condizioni contestualmente fissate: vale a dire, che l'azienda in questione avesse, a sua volta, « registrato un aumento dei costi di esercizio non superiore al 13% rispetto al 1982 », che avesse «applicato gli adeguamenti tariffari previsti» dall'art. 31, comma 2, e che all'azienda stessa la Regione avesse « corrisposto nel 1983 un contributo di esercizio in misura non inferiore a quello corrisposto nel 1982 ». Unicamente a questo punto ed entro questi limiti, il comma 5.3. dell'art. 31 stabiliva che « le erogazioni disposte dalle regioni » venissero « riconosciute in aumento alla quota del Fondo nazionale trasporti loro spettante»: ma con riferimento al fondo per il 1984, e non al fondo per il 1983, come l'Avvocatura dello Stato ha messo giustamente in luce.
Del resto, a ciò si aggiunge che là clausola abrogativa contenuta nell'art. 7, comma 12, riguarda comunque facoltà spettanti alle Regioni e non maggiori spese delle quali esse debbano farsi puntualmente carico. A motivare la presente decisione di rigetto, concorrono dunque le argomentazioni della sentenza n. 307 del 1983, là dove si osserva che «gli ulteriori contributi, previsti dal comma 5.2 dell'art. 31, sono pur sempre — giuridicamente — il frutto di un'autonoma determinazione regionale» (effettuata sulla base dell'art. 5 cpv. della «legge quadro» in tema di trasporti pubblici locali);:« sicché non ne deriva nessun onere che sia stato posto a carico dei bilanci regionali, senza l'indicazione dei mezzi per farvi fronte».
5. L'art. 19 l. n. 730 viene impugnato unicamente dalla Regione Veneto, anche «in relazione» all'art. 16 della legge stessa, come si precisa nelle premesse del ricorso. Nel disporre la proroga del « blocco delle assunzioni», già previsto dall'art. 9, comma 3, l. n. 130 del 1983, le disposizioni denunciate avrebbero anzitutto conferito « carattere di normalità a una misura eccezionale », contravvenendo alle indicazioni date dalla Corte con la sentenza n. 307 del medesimo anno. Più specificamente, tali disposizioni avrebbero invaso, sotto un triplice aspetto, la competenza costituzionalmente riservata alle Regioni: in primo luogo, perché il comma 3 dell'art. 19, richiamando l'art. 9, comma 5, l. n. 130, continua a subordinare le «nuove assunzioni » presso le «amministrazioni regionali » al rispetto di appositi atti governativi d'indirizzo e coordinamento; in secondo luogo, perché il comma 4 dell'art. 19, pur demandando alle Regioni le valutazioni delle « eventuali necessità di assunzioni di personale» presso le unità sanitarie locali, stabilisce anche in tal caso che le autorizzazioni regionali vanno disposte « nei limiti fissati dagli atti di indirizzo e coordinamento emanati ai sensi del comma 5 dell'art; 9 l. 26 aprile 1983 n. 130 »; in terzo luogo, perché la mancata considerazione degli «enti amministrativi dipendenti dalla Regione» lascia intendere — secondo la difesa regionale — che resta «impregiudicato il potere statale per tutti quegli enti che, pur diversi da quelli del servizio sanitario e dalle amministrazioni regionali in senso stretto, rientrano tuttavia nell'area delle competenze regionali anche per quanto concerne la disciplina e la provvista dei loro organici e delle assunzioni di personale ». Ed il raffronto fra l'art. 19 e Pari. 16 l. n. 730, che riconosce ai Commi le alle Province — come si afferma nel ricorso — «una, sfera, di autodeterminazione in materia... più ampia di quella regionale»,, varrebbe a confermare la sussistenza dei prospettati vizi di legittimità costituzionale.
In realtà, sui primi due motivi specificamente; dedotti nel ricorso, la Corte; si è già pronunciata con quella stessa sentenza n. 307 del 1983, da cui la ricorrente vorrebbe trarre argomento per fondare le proprie censure. Con quella decisione s'è infatti annullato l'art. 9, comma 4, della citata l. n. 130, nella parte in cui non conferiva alle Regioni la potestà di determinare, valutate le eventuali necessità, i singoli casi in cui fosse indispensabile procedere ad assunzione di personale nelle unità sanitarie locali; ma si sono mantenute espressamente ferme, anche nel dispositivo della decisione stessa, « le funzioni di indirizzo e coordinamento previste dall'art. 5 l. 23 dicembre 1978 n. 833 ». Del pari, si è dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale concernente l'art. 9, comma 5, in base all'assunto che tale norma prevedeva (e tuttora prevede) «il possibile contenuto: degli atti di indirizzo e coordinamento, rappresentato non da pure e semplici prescrizioni di blocco delle assunzioni, derogabile solo in casi stabiliti da organi governativi, ma dall'individuazione di limiti entro i quali debba risultare contenuta la spesa delle regioni derivante da nuove assunzioni, limiti superabili solo in presenza. di valutazioni di indispensabilità, da compiersi, ad opera dei competenti organi regionali, con procedure non riproduttive di, quella configurata dal comma 4 dello stesso articolo, ma su di questa esemplate ».
Né vale obiettare che il «blocco delle assunzioni», in quanto protratto per l'intero anno in corso, avrebbe superato quei « limiti temporali non irragionevoli », che la Corte stimava rispettati sin quando la detta misura di contenimento restava circoscritta al 1983. Come l'Avvocatura dello Stato ha posto; in rilievo, « il carattere transitorio della, misura non viene meno... per la sola ragione della sua proroga » (ed anzi «l'esigenza straordinaria di freno alla dilatazione della spesa pubblica che giustificò il divieto di assunzioni nell'anno 1983 lo giustifica, ancora nel 1984»); tanto più che il comma 1 dell'impugnato art. 19 ha notevolmente esteso la serie delle ipotesi nelle quali il blocco non opera, rispetto alle originarie previsioni dell'art. 9, comma 3, l. n. 130. Se poi si considera che, nella specie, spetta alle Regioni individuare i singoli casi nei quali risulti indispensabile derogare, al blocco stesso, ne viene ulteriormente confermata l'infondatezza delle due prime impugnazioni in esame. E l'estrinseco richiamo alle diverse situazioni disciplinate dall'art. 16 1. n. 730 non può far mutare le conclusioni così raggiunte.
Per contro, dev'essere accolto il terzo degli indicati motivi di ricorso. Non regge l'eccezione d'inammissibilità, sollevata in proposito dall'Avvocatura dello Stato, con il rilievo die la censura sarebbe «troppo generica» riguardando «altri enti non precisati» dal ricorso medesimo: vero è, viceversa, che l'impugnativa prende le mosse da un testuale richiamo all'art. 117 Cost., là dove si tratta degli «enti amministrativi dipendenti dalla Regione » (anche se il riferimento viene illustrato in forma esemplificativa — mediante un successivo accenno alle «aziende regionali forestali », agli «enti di sviluppo agricolo », agli «enti turistici » ed agli « enti fieristici regionali » — piuttosto che in un modo tassativo). Nel merito, d'altronde, non si giustifica il fatto che il legislatore statale, tanto nella l. n. 130 quanto nella l. 730 del 1983, abbia preso in specifica considerazione le assunzioni di personale presso le « amministrazioni regionali », trascurando quegli « enti amministrativi , dipendenti », che pur non confondendosi con le « amministrazioni » stesse vengono affiancati agli « uffici » dell'ente Regione per mezzo del citato disposto costituzionale. L'incoerenza della vigente disciplina sul « blocco delle assunzioni » è anzi accentuata da ciò che l'ommissione di nuovo personale nelle unità sanitarie locali, entro i limiti fissati dagli atti governativi di indirizzo e coordinamento, ricade attualmente nella competenza regionale, malgrado le «strutture operative» in questione facciano capo ai Comuni (od alle comunità montane) anziché alle Regioni, in base all'art. 15, comma 1, della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale.
Non a caso, la prima Commissione permanente del Senato aveva espresso in tal senso l'avviso che la legge finanziaria 1984 dovesse affermare la competenza delle Regioni « non solo per il personale del servizio sanitario, ma, più in generale, per tutto il personale dipendente da enti pubblici regionali » (Atti Senato, 20 ottobre 1983 n. 195-A). Senonché il detto parere, che avrebbe portato alle loro naturali conseguenze le indicazioni offerte dalla sentenza n. 307 del 1983 circa le unità sanitarie locali, è stato disatteso dal Parlamento nel seguito dei lavori preparatori della 1. n. 730. E dunque la Corte deve ora restaurare la competenza regionale costituzionalmente garantita in materia, dichiarando la illegittimità dell'art. 19, comma 3, nella parte in cui non prevede — alle stesse condizioni stabilite per le « amministrazioni regionali » — che siano le Regioni (e non il Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio stesso, sentito il Ministro del tesoro) a determinare, valutate le eventuali necessità, i singoli casi in cui sia indispensabile procedere alle assunzioni di personale presso gli enti amministrativi da esse dipendenti.
6. L'art. 24, comma 1, l., n. 730 (in combinazione con l'art. 32, comma 5, della legge stessa) viene a sua volta impugnato dalla Regione Toscana:
con particolare riguardo — come si evince dalla motivazione del ricorso — alla lett. b), che demanda agli accordi collettivi nazionali, stipulati in base alPart. 48 l. u. 833 del 1978, « l'istituzione di commissioni professionali a livello regionale con la partecipazione di rappresentanti dei medici convenzionati..., scelti tra esperti qualificati delle strutture pubbliche universitarie e ospedaliere, e dell'ordine professionale, con il compito di definire gli standards medi assistenziali e di fissare la procedura per le verifiche di qualità dell'assistenza»; al che si aggiunge — secondo la disposizione denunciata — che «nella definizione degli standards medi assistenziali dovranno altresì essere previste le ipotesi di eccessi di spesa che potranno dar luogo, ove non giustificate, a sanzioni da determinarsi secondo i criteri previsti dal punto 3, comma 3, del richiamato art. 48 ».
La Regione ricorrente assume, infatti, che le funzioni attribuite alle dette commissioni professionali interferirebbero con la competenza regionale in materia di «assistenza sanitaria ed ospedaliera »: venendo a ledere, più precisamente, la potestà di organizzare le strutture sanitarie sul piano regionale ed infraregionale, nonché la potestà di definire le regole organizzative attinenti alla gestione in loco del servizio sanitario nazionale, che l'art. 11 l. n. 833 del 1978 avrebbe invece incluso tra le funzioni legislative ed amministrative spettanti in tal campo alle Regioni. Di qui la connessa impugnazione dell'art. 32, comma 5, che impone alle commissioni regionali di controllo di cui all'art. 24; di «valutare con particolare attenzione i dati relativi alle prestazioni in questione (diagnostica specialistica ad alto costo) e alla spesa conseguente»;
tanto più che quest'ultima disposizione sarebbe ulteriormente viziata per contrasto con l'art. 130 Cost., il quale riserva ad appositi organi della Regione il controllo sugli atti degli enti locali (unità sanitarie locali comprese) e per ciò stesso preclude — a quanto si adduce nel ricorso — la configurabilità di anomali controlli del genere in esame.
Per risolvere i problemi così prospettati, giova premettere che l'art. 48 1. n. 833 del 1978 considera — direttamente od indirettamente — ogni aspetto dell'ordinamento del « personale sanitario a rapporto convenzionale», con il dichiarato scopo di garantire, « sull'intero territorio nazionale», « l'uniformità del trattamento economico e normativo» del personale medesimo, in vista di quell'« eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio » (proclamata dall'art. 1, comma 3, della stessa l. n. 833) che rappresenta il primario motivo ispiratore della riforma sanitaria. Ai contratti collettivi da esso previsti, cui devono «del tutto» conformarsi le convenzioni delle quali si tratta, l'art. 48 devolve pertanto — in particolar modo — il compito di regolare « il rapporto ottimale medico-assistibili..., fatto salvo il diritto di libera scelta del medico per ogni cittadino», «il numero massimo degli assistiti per ciascun medico» e, soprattutto, «le forme di controllo sull'attività dei medici convenzionati nonché le ipotesi di infrazione da parte dei medici degli obblighi derivanti dalla convenzione, le conseguenti sanzioni, compresa la risoluzione del rapporto convenzionale, e il procedimento per la loro irrogazione, salvaguardando il principio della contestazione degli addebiti e fissando la composizione di commissioni paritetiche di disciplina » (come si legge nel comma 3, nn. 1, 5 ed 8). Ed è appunto in questo quadro (del quale la Regione Toscana non contesta affatto la legittimità costituzionale) che s'inserisce la norma impugnata, avendo principalmente di mira la determinazione di criteri concernenti il cosiddetto comportamento prescrittivo dei medici convenzionati, al duplice fine di limitare la corrispondente spesa sanitaria e di rendere, possibile, nel caso di un'ingiustificata violazione dei criteri medesimi, la decadenza dal rapporto convenzionale.
L'art. 24, comma 1 lett. b), 1. n. 730 non implica dunque — come vorrebbe il ricorso — una rottura della logica alla quale è ispirato l'art. .48 1. n. 833; bensì costituisce, dal punto di vista delle rispettive competenze statali e regionali, una puntuale conferma della logica stessa. Ben diversamente dal personale delle unità sanitarie locali, in ordine al quale spetta alle Regioni un consistente complesso di poteri, il personale sanitario, a rapporto convenzionale viene interamente regolato per mezzo di norme legislative, statali ovvero di appositi accordi collettivi nazionali (sia pure stipulati da una delegazione dei poteri pubblici, comprensiva di cinque rappresentanti regionali); mentre ad ogni singola Regione l'art 48 riserva il solo compito di autorizzare le temporanee deroghe di cui al comma 3, punto 5, quanto «al numero massimo degli assistiti e delle ore di servizio ambulatoriale ».

Ciò spiega per quali, motivi il Parlamento, discostandosi dal testo presentato dal Governo, abbia approvato la norma che ora è in discussione. Determinante, cioè, si è rivelata l'esigenza  più volte segnalata nel corso dei lavori preparatori — di evitare ingerenze di stampo burocratico nell'esercizio della libera professione medica. E ne offre la. riprova l'esordio dell'art. 24, comma 1, che. subordina i previsti contratti collettivi nazionali « al fine di razionalizzare l'erogazione delle prestazioni sanitarie in regime convenzionale, nel rispetto dell'autonomia e del segreto professionale- dei sanitari convenzionati».

C'erto, la soluzione così accolta potrebbe dare luogo ad inconvenienti perché suscettibile delle più diverse applicazioni nell'ambito del territorio nazionale. Ma, entro la particolare prospettiva del presente giudizio, rimane fermo che gli obblighi gravanti sul personale in esame non costituiscono — secondo il vigente sistema — l'oggetto di alcuna potestà legislativa regionale propria: il che dovrebbe escludere, del pari, la stessa possibilità di un conflitto fra gli « standards medi assistenziali», prefigurati dal comma 1, lett. b»), dell'art. 24, ed i « piani sanitari regionali», periodicameute approvati dai legislatori locali, in base all'art. 55 l. n. 833. Di conseguenza, la prima delle proposte questioni deve dirsi non fondata. E la medesima conclusione vale per l'impugnativa concernente l'art. 32, comma 5: poiché il cosiddetto «controllo sull'attività dei medici convenzionati» — già fondato sull'art. 48, comma 3, punto 8, 1. n. 833 — non ha nulla a che vedere con i1 controllo sugli atti degli enti locali, considerati dall'art. 130 Cost.
7. La Regione Trentino-Alto Adige e le Province di Trento e di Bolzano contestano la. legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, l. finanziaria 1984: per cui, « a modifica di quanto previsto dall'art. 69 1. 23 dicembre 1978 n. 833, le somme di cui alle lett. b), c) e e) del comma 1 dello stesso articolo sono trattenute dalle unità sanitarie locali, dalle regioni e province autonome e sono utilizzate per il 50% ad integrazione del finanziamento di parte corrente e per il 50 % per l'acquisto di attrezzature in conto capitale ».
a) Di tale disciplina, la Regione e le Province autonome censurano la parte che prescrive un rigido criterio di riparto e di utilizzo delle somme in esame, destinandole rispettivamente alle spese sanitarie correnti ed alle spese di investimento. Da un lato, cioè, il ricorso regionale assume che la norma impugnata invaderebbe — senza il supporto di alcuna riforma economico-sociale della Repubblica — una competenza riservata alla legislazione primaria del Trentino-Alto Adige, quale l'« ordinamento degli enti sanitari ed ospedalieri» (ex art. 4 n. 7 St.): competenza che la Regione avrebbe già esercitalo, mediante le leggi n. 6 del 1980 e n. 1 del 1981. D'altro lato, i ricorsi provinciali si dolgono del vincolo di destinazione che l'art. 25, comma 2, verrebbe ad imporre sulle somme « trattenute » dalle Province stesse, in aperto contrasto con l'art. 30 1. prov. n. 7 del 1979 (recante « norme in materia di bilancio e di contabilità generale della Provincia autonoma di Trento»), come pure con l'art. 28 1. prov. n. 8 del 1980 (recante «norme in materia di bilancio e di contabilità generale della Provincia autonoma di Bolzano»); ma i detti ricorsi denunciano, inoltre, i corrispondenti vincoli imposti alle unità sanitarie locali operanti nel Trentino-Alto Adige traendo argomento dalla competenza provinciale relativa ai controlli sugli atti e sugli organi delle unità medesime.
Ora, per ciò che riguarda la Regione, è fondamentalmente esatta la replica proposta dall'Avvocatura dello Stato: vale a dire, che la competenza regionale concernente l'ordinamento delle, unità sanitarie locali non include «i contenuti del loro agire». Effettivamente, secondo lo Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, la competenza in tema di «igiene e sanità, ivi compresa l'assistenza sanitaria, e ospedaliera », non spetta alla Regione bensì alle Province (ex art. 9 n. 10 St.). Né le due leggi regionali richiamate dal ricorso-danno fondamento all'impugnativa. Vero è, viceversa, che la l. n. 6 del 1980, recante l'« ordinamento delle unità sanitarie locali», non contiene alcuna previsione che collida od interferisca con la norma impugnata; mentre, la l. n. 1 del 1981, intitolata «Disciplina della contabilità delle unità sanitarie locali», demanda ai piani sanitari provinciali — in base al comma 1 dell'art. 4 — la determinazione delle entrate « da, destinare rispettivamente .al finanziamento delle spese correnti e di quelle in conto capitale»: ma, con ciò stesso, conferma che norme del genere di quella impugnata condizionano se mai — l'esercizio delle funzioni spettanti in materia alle Province e non alla Regione Trentino-Alto Adige.
b) Quanto invece ai ricorsi provinciali, occorre anzitutto chiarire quale sia la natura delle somme che vengono attualmente «trattenute» dalle Province e dalle unità sanitarie locali, per effetto del comma 2 dell'art. 25, a modifica dell'art. 69, comma 1, lett. b), c) ed e), l. n. 833 del 1978. Precedentemente all'entrata in vigore della legge finanziaria 1984, le somme in questione — comprendenti gli importi già destinati dalle Province medesime (nonché dalle Regioni, dai Comuni e da altri enti pubblici) « al finanziamento delle funzioni esercitate in materia sanitaria », al pari dei « proventi » e dei « redditi netti derivanti dal patrimonio trasferito ai comuni per le unità sanitarie locali » e dei « proventi derivanti da attività a pagamento svolte dalle unità... e dai presidi sanitari ad esse collegati... » — venivano tutte versate « all'entrata del bilancio dello Stato», per confluire nel fondo sanitario nazionale: come precisava — in riferimento all'art. 69, comma 1, lett. b) — l'art. 52, comma 1, l. n. 833. Ma la destinazione di questi mezzi al finanziamento della spesa sanitaria non è affatto cessata nel momento in cui la stessa norma denunciata ne ha consentito l'immediato utilizzo da parte degli enti pubblici ivi indicati, senza più farle passare attraverso il fondo sanitario nazionale; e tale destinazione giustifica — sul piano costituzionale — i vincoli contestualmente imposti quanto all'uso delle somme così «trattenute». In altre parole, una volta che dette somme venivano esentate dal rispetto degli « indici » e degli « standards » che il CIPE definisce « distintamente » — in base all'art. 51, comma 2, 1. n. 833 — « per la spesa corrente e per la spesa in conto capitale » da fronteggiare mediante l'apposito fondo sanitario nazionale, la legge finanziaria 1984 ha direttamente fissato un analogo criterio di riparto: la rigidità del quale può rappresentare, eventualmente, una ragione di critica sotto il profilo della tecnica o della politica legislativa, ma non si risolve in un vizio sindacabile da questa Corte.
Così stando le cose, non è pertinente il richiamo dei ricorsi alle leggi provinciali di contabilità là dove esse prevedono (alla stregua dell'art. 21, comma 1, l., n. 335 del 1976) che i fondi comunque assegnati alle Province affluiscano ai rispettivi bilanci « senza vincolo a specifiche destinazioni ». Se tale pretesa venisse condotta alle sue naturali conseguenze, nell'ambito del servizio sanitario, ciò comporterebbe che le stesse quote del fondo nazionale, annualmente trasferite alle amministrazioni provinciali, possano venire utilizzate dai legislatori locali per coprire spese del tutto esorbitanti dal campo della sanità pubblica. Ma ciò si porrebbe in palese contrasto con le caratteristiche fondamentali della riforma sanitaria, cioè con «l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio» e con la conseguente competenza dello Stato a fissare « i livelli delle prestazioni sanitarie che devono essere, comunque, garantiti a, tutti i cittadini » (artt. 1, -comma 3, e 3, comma 2. l. n. 833 del 1978) : riforma che in tal senso vincola anche le Province di Trento e di Bolzano, quanto alle stesse materie attribuite alla loro competenza legislativa primaria.
A più forte ragione, d'altronde, la conclusione non muta per ciò che riguarda le unità sanitarie locali ed i piani sanitari provinciali, in quanto competenti a programmare l'utilizzo delle somme disponibili da parte delle unità medesime: giacché in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera le Province autonome non sono dotate se non di potestà legislativa concorrente, sul medesimo piano delle Regioni ordinarie. Né giova argomentare die i controlli provinciali sugli enti locali minori coinvolgono i bilanci delle U.S.L.: altro essendo il controllo — come ha giustamente rilevato l'Avvocatura dello Stato — ed altro l'indirizzo delle attività spettanti alle strutture sanitarie locali.
Relativamente al comma 2 dell'art. 25, tanto il ricorso regionale quanto i due ricorsi provinciali si dimostrano quindi infondati in tutti i, loro aspetti.
8. Oltre che dalla Regione Trentino-Alto Adige e dalle Province di Trento e di Bolzano, il comma 3 dell'art. 25 viene censurato dalla Regione Sicilia. Tuttavia, i primi tre ricorsi hanno specifico riferimento all'ultimo periodo del comma stesso: mentre il ricorso siciliano sembra mettere in questione le sole previsioni contenute nel periodo iniziale.
Secondo le disposizioni impugnate, «le regioni e le province autonome possono con propria legge assicurare prestazioni di assistenza sanitaria aggiuntive a quelle previste dal precedente comma 1, con prelievo dalla quota del fondo comune di cui all'art. 8 l. 16 maggio 1970 n. 281, per le regioni a statuto ordinario, e dalle corrispondenti entrate di parte corrente previste dai rispettivi ordinamenti per le regioni a statuto speciale o province autonome ovvero attingendo ad economie, di gestione delle somme loro attribuite dal fondo sanitario nazionale»; ma «le regioni e le province autonome sono tenute, nel caso, ad instaurare una contabilità separata ». Quest'ultima previsione costituisce, appunto, l'unico oggetto dell'impugnazione proposta dalla Regione Trentino-Alto Adige e dalle due Province autonome: le quali si dolgono del vincolo che ne discenderebbe, sia quanto alla contabilità regionale e provinciale, sia quanto alla contabilità delle U.S.L., dal momento che sotto entrambi i profili si tratterebbe di materie rispettivamente riservate alla competenza della Regione o delle Province medesime. Per contro, la Sicilia osserva che l'ari. 25 comma 3, I periodo, «pur rimettendo alle Regioni la facoltà di assicurare con propria legge prestazioni... aggiuntive..., nella pratica... costringe la Regione siciliana, che sarà sicuramente obbligata ad integrare la quota F.S.N. assegnata per il 1984 già sottodimensionata anche rispetto ad altre regioni, a ricorrere alle... entrate di parte corrente»: donde «una ingerenza nell'autonomia finanziaria» regionale, che verrebbe a contraddire l'art. 119 Cost. e l'art. 19 dello Statuto speciale.
Il ricorso della Regione Sicilia non si regge, per altro, sopra nessun fondamento giuridico. La lettura dell'ari. 25, comma 3, è ben chiara nel senso che la Regione non è affatto costretta ma facoltizzata ad assicurare «prestazioni... aggiuntive». E la denunciata insufficienza del fondo sanitario nazionale, con particolare riguardo alla quota spettante alla Sicilia, avrebbe potuto assumere un qualche rilievo, se l'impugnativa si fosse rivolta contro il comma 1 dell'art. 25, relativo all'entità del fondo per il triennio 1984-86, o contro i criteri di riparto del fondo medesimo nell'esercizio 1984, quali sono fissati dall'art. 27, comma 1, 1. n. 730; mentre non incide in nessun modo sull'attuale giudizio di legittimità costituzionale.
Più complesso è il discorso concernente l'ultimo periodo dell'art. 25, comma 3, poiché la questione proposta dalla Regione Trentino-Alto Adige e dalle Province di Trento e di Bolzano non può essere risolta, se non vengono preliminarmente individuati la sfera di efficacia ed il significato della norma di cui si discute. In proposito, le parti ricorrenti ed il Presidente del Consiglio dei ministri si sono chiesti anzitutto se l'obbligo d'« instaurare una contabilità separata» si riferisca alle Regioni ed alle Province autonome, in quanto assicurino le previste «prestazioni... aggiuntive», ovvero riguardi le unità sanitarie locali o infine coinvolga le une e le altre, all'atto in cui deliberino di erogare le prestazioni stesse; ed in quest'ultimo senso la norma è stata intesa dall'Avvocatura dello Stato. Senonché la Corte è dell'avviso che l'imposizione in esame attenga unicamente alle amministrazioni regionali e provinciali. Il testo dell'art. 25, comma 3, ultimo periodo dispone senz'altro in questi soli termini. E l'indicazione offerta dalla lettera può ritenersi univoca, sia perché le unità sanitarie locali non vengono nemmeno menzionate nel periodo iniziale, diversamente da ciò che si riscontra nel comma 2 del medesimo articolo; sia anche perché le Province di Trento e Bolzano non possono entrare in considerazione se non per quanto concerne le rispettive contabilità provinciali, dal momento che nel Trentino-Alto Adige l'ordinamento e la contabilità delle U.S.L. sono riservate alla competenza regionale.
Ciò premesso, rimane da stabilire in che consista il vincolo che la norma impugnata determina. E, per questa parte, la Corte ritiene fondata l'interpretazione proposta dall'Avvocatura dello Stato, secondo la quale detta norma comporterebbe «nulla più che la specificazione di un principio di contabilità pubblica»: principio già stabilito, in linea generale e nei confronti delle Regioni di diritto comune dall'art. 9, comma 4, lett. b) e d) 1. n. 335 del 1976, per cui « non possono essere incluse comunque nel medesimo capitolo... spese per l'adempimento delle funzioni normali della regione e spese per il finanziamento di ulteriori programmi di sviluppo » ovvero « spese relative a obiettivi per perseguire i quali la regione goda di finanziamenti da parte dello Stato, iscritti nello stato di previsione dell'entrata dello stesso bilancio, ed altre spese » (ma si veda inoltre l'art. 10, comma 2, 1. cit.). Più precisamente, l'ultimo comma dell'art. 25 sta a significare, sotto questo aspetto, che la contabilità relativa alle spese autonomamente disposte dalle Regioni e dalle Province autonome dev'esser tenuta distinta da quella relativa alle spese finanziate mediante il fondo sanitario nazionale: il che si giustifica per le stesse Regioni e Province a statuto speciale, posto che lo Stato ha l'interesse a veder evidenziata quella parte della spesa sanitaria che viene invece a gravare sui mezzi finanziari destinati al servizio sanitario nazionale, per assicurare — come già si diceva — i livelli delle prestazioni sanitarie comunque garantiti a tutti i cittadini.
Così ricostruito, il periodo finale dell'art. 25, comma 3, resiste alle censure prospettate dalla Regione Trentino-Alto Adige e dalle Province di Trento e di Bolzano.
9. La Regione Sicilia e le Province di Trento e di Bolzano denunciano altresì l'art. 27 l. n. 730, Ma, anche in tal caso, il ricorso siciliano si distingue, nettamente, per impostazione e per oggetto, dalle impugnative delle due province autonome.
Secondo la Sicilia, infatti, l'intero art. 27 sarebbe illegittimo, poiché imporrebbe a quella Regione «oneri e limitazioni incompatibili con il rispetto della competenza amministrativa e legislativa derivantele dagli art. 17 e 20 dello Statuto ». Senonché il ricorso dev'esser dichiarato inammissibile, dato che la sua motivazione si risolve, su questo punto, in una mera parvenza. Di fronte ad una disciplina estremamente articolata e complessa, come quella dettata dall'art. 27 in tema di riparto e di utilizzo del fondo sanitario nazionale, la ricorrente trascura cioè di chiarire in quali parti e per quali specifici motivi le disposizioni impugnate verrebbero a ledere od invadere la competenza regionale: il che sarebbe stato tanto più necessario, in quanto la Sicilia non dispone — in materia di « igiene e sanità pubblica» e di «assistenza sanitaria» — di legislazione «esclusiva» bensì di legislazione concorrente (come lo stesso ricorso riconosce, là dove fa richiamo all'art. 17 anziché all'art. 14 ovvero all'art. 15 St.).
Va invece affrontata nel merito la questione proposta dalle due Province autonome, relativamente all'ultimo comma dell'art. 27. Disponendo che «il III periodo comma 1 dell'art. 80 l. 23 dicembre 1978 n. 833,è abrogato», la legge finanziaria 1984 avrebbe violato — secondo i ricorsi provinciali - l'art. 78 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, escludendone l'applicazione in ordine al finanziamento della spesa sanitaria, già prevista dalla legge istitutiva del servizio sanitario nazionale: la quale statuiva, nel passo dell'art. 80, comma 1, reso inefficace dall'impugnata clausola abrogativa, che « per il finanziamento relativo alle materie di cui alla presente legge » dovesse appunto applicarsi « quanto disposto dall'art. 78 del d.P.R. 31 agosto 1972 n. 670, e relativi parametri ».
Nello sforzo di eliminare il problema alla radice, l'Avvocatura dello Stato ha proposto un'interpretazione fortemente riduttiva del citato art. 80, comma 1, III periodo, « nel senso che le Province autonome di Bolzano e di Trento, in non diversa guisa dalle regioni a statuto speciale, dovessero vedersi attribuite quote del fondo sanitario nazionale, determinate mediante forme procedimentali e criteri di ripartizione identici per tutte le regioni... ferma restando la partecipazione al gettito dei tributi erariali preveduta dall'art. 78 St. ». Ma questa tesi non può esser condivisa dalla Corte, perché la "norma attualmente abrogata riguardava

— alla lettera — il solo «finanziamento relativo alle materie di cui alla presente legge»; sicché l'unica via per non privare la norma stessa di significato consisteva nel concepirla come una deroga ai comuni criteri di riparto del fondo sanitario nazionale, fissati dall'art. 51 1. n. 833 del 1978. Precisamente in tal senso, d'altronde, l'art. 6-bis, comma 1, d.l n. 63 del 1979 come convertito nella 1. n. 33 del 1980, dettava un'apposita disposizione per le Province di Trento e di Bolzano, in tema di «riparto delle quote del fondo sanitario nazionale ad esse assegnate ai scusi degli artt. 51 e 80 1. 23 dicembre 1978 n. 833 »; mentre l'esplicito riferimento «all'art. 80, quanto alle assegnazioni disposte «a... favore» delle province predette, contraddistingueva del pari l'art. 5, comma 1, l. n. 526 del 1982. Ed una serie di riprove ulteriori è stata infine fornita dalle concordi indicazioni dei lavori preparatori della legge finanziaria 1984, sia da parte dei sostenitori sia da parte dei critici della soluzione di cui si discute.

Sul piano costituzionale, tuttavia, le proposte impugnative risultano infondate, poiché il richiamo dell'art 78 St., originariamente contenuto nell'art. 80 1. n. 833, non era affatto imposto dallo Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, diversamente da ciò che i ricorsi in esame pretendono. In effetti, l'art. 78 non attiene in nessun modo alla spesa sanitaria ed alle relative entrate, ma si limita a prevedere quanto segue: «Allo scopo di adeguare le finanze delle province autonome al raggiungimento delle finalità e all'esercizio delle funzioni stabilite dalla legge, è devoluta a ciascuna provincia... una quota del gettito dell'imposta generale sulla entrata relativo al territorio regionale e delle tasse ed imposte sugli affari non indicati nei precedenti articoli al netto delle quote attribuite dalle leggi vigenti alle province e ad altri enti»; al che si aggiunge che « nella determinazione di detta quota sarà tenuto conto — in base ai parametri della popolazione e del territorio — anche delle spese per gli interventi generali dello Stato disposti nella restante parte del territorio nazionale negli stessi settori di competenza delle province », mentre la quota stessa « sarà stabilita annualmente d'accordo fra il Governo e il Presidente della giunta provinciale ».
Giustamente, perciò, l'Avvocatura dello Stato osserva che quella già dettata dall'art. 80, comma 1, III periodo, 1. n. 833 non era una disciplina costituzionalmente necessitata, ma rappresentava il frutto di una libera scelta del legislatore. Né il superamento della scelta stessa può considerarsi privo di giustificazione, date le peculiari finalità del fondo sanitario, che è stato istituito per garantire livelli minimi di prestazioni, «in modo uniforme su tutto il territorio nazionale» (come si precisa nel comma 2 del citato art. 51). Al contrario, è proprio «l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio » che rischiava di venire compromessa, qualora si fosse continuato ad applicare un differenziato meccanismo di riparto del fondo medesimo, suscettibile di privilegiare gli abitanti del Trentino-Alto Adige, a detrimento di tutte le altre componenti del Paese.
10. La sola Regione Veneto solleva un complesso di questioni di legittimità costituzionale relative all'art. 28 1. n. 730 e, più precisamente, al comma 1 dell'articolo stesso : in cui si stabilisce che, « a decorrere dal 1984, qualora il consuntivo dell'esercizio finanziario si chiuda con un disavanzo non ripianabile con risorse a disposizione dell'unità sanitaria locale e non siano previste misure adeguate per riassorbirlo entro il secondo anno successivo a quello cui si riferisce il consuntivo, la regione provvede ad esercitare, previa diffida, attraverso il comitato regionale di controllo, i poteri sostitutivi relativamente agli atti di competenza del comitato di gestione e dell'assemblea dell'unità sanitaria locale, ovvero richiede, con deliberazione motivata in riferimento a inadempienze del comitato di gestione, lo scioglimento di quest'ultimo al commissario del Governo ».
Stando al ricorso, l'art. 28 configurerebbe un « anomalo procedimento di controllo sull'organo di gestione delle U.S.L., da attivarsi ma non da condursi da parte della Regione». Con ciò, in primo luogo, la disciplina denunciata lederebbe le attribuzioni regionali, sia perché definirebbe in termini puntuali «le modalità di funzionamento dell'organo regionale di controllo», sovrapponendosi alle leggi locali competenti in materia, sia perché introdurrebbe « una fattispecie di controllo sostitutivo... eterogeneo rispetto alle forme del controllo sulle U.S.L. e in ultima analisi inapplicabile ». In secondo luogo, il previsto scioglimento dei comitati di gestione delle unità sanitarie ad opera del Commissario del Governo determinerebbe del pari «una forma di controllo ulteriore rispetto a quelle consentite dall'art. 130 Cost. » : poiché il controllo stesso, « sia per la misura prefigurata (scioglimento del Comitato di gestione), sia per l'organo competente a esercitarlo (Commissario del Governo), sia per la definizione dell'iniziativa in capo alla Regione », non troverebbe « alcuna collocazione nel sistema dei controlli sugli enti locali » ed in ogni caso priverebbe la Regione di una competenza attribuitale dall'art. 130 Cost e dall'art. 49 l. n. 833 del 1978, senza affatto tener conto della circostanza che « buona parte delle "U.S.L. » sarebbero « enti operanti integralmente in materie regionali».
Come si vede, sebbene il ricorso contenga valutazoni di varia natura, parte attinenti alla legittimità e parte al merito della normativa in esame, non si può dire che esso trascuri di indicare in qual senso la competenza regionale sarebbe stata invasa o violata (come è richiesto dall'art. 2, comma 1, l. cost. n. 1 del 1948 e dall'art. 32, comma 1 1. n. 87 del 1953). Pertanto, dev'essere respinta l'eccezione di inammissibilità, sollevata dall'Avvocatura dello Stato in base all'assunto che la ricorrente si limiterebbe ad asserire l'irrazionalità dell'impugnato art. 28 e lamenterebbe comunque « la violazione di norme costituzionali poste a garanzia dell'autonomia di Comuni e Province», anziché delle attribuzioni costituzionalmente spettanti alla Regione stessa. Nel merito, però, il ricorso non è fondato, né per quanto riguarda i poteri sostitutivi previsti dalla prima parte dell'art. 28, comma 1, né relativamente all'alternativo scioglimento del comitato di gestione delle unità sanitarie locali.
a) In verità, circa il primo ordine di problemi, questa Corte non può non rilevare l'incoerente sovrapporsi di varie leggi statali, "che negli ultimi anni ha contraddistinto la disciplina del settore in discussione. Basti ricordare che la 1. n. 833 del 1978 non prevede in modo specifico alcun tipo di poteri e di controlli sostitutivi nei confronti degli atti o delle attività spettanti alle U.S.L., fatta eccezione per il disposto dell'art. 50, u.c.: il quale stabilisce che, nell'ipotesi di un «disavanzo complessivo», «i comuni singoli o associati, e le comunità montane sono tenuti a convocare nel termine di 30 giorni i rispettivi organi deliberanti al fine di adottare i provvedimenti necessari a riportare in equilibrio il conto di gestione della unità sanitaria locale». Per altro, in virtù dell'art; 13, comma 2, l. n. 181 del 1982 la competenza ad adottare i provvedimenti necessari a riportare in equilibrio il conto » predetto viene devoluta alle Regioni, per il caso che i Comuni o le Comunità montane non esercitino i compiti loro attribuiti, entro trenta giorni dall'invito regionale: mentre l'art. 1, comma 10, d. l. n. 463 del 1983, convertito nella 1. n. 638 del medesimo anno, .estende a sua volta i poteri surrogatori regionali, con riferimento a tutte le situazioni in cui le unità sanitarie rimangano inerti o ritardino nell'adempimento dei doveri loro imposti in via normativa ovvero in conseguenza di atti governativi di indirizzo e coordinamento. Lungo questa linea muoveva anche il progetto della legge finanziaria 1984, approvato dalla dodicesima Commissione permanente del Senato: secondo il quale doveva spettare alle Regioni (od al Presidente del Consiglio dei ministri, ove l'amministrazione regionale non avesse tempestivamente provveduto) l'esercizio dei poteri sostitutivi rispetto alle assemblee ed ai comitati di gestione delle U.S.L. gravate dai disavanzi in questione. E, viceversa, la norma impugnata ha mutato indirizzo, puntando sui comitati regionali di controllo, piuttosto che sugli organi regionali di amministrazione attiva. Per sé considerata, tuttavia» la soluzione in osarne non appare lesiva di alcuna competenza regionale costituzionalmente garantita. L'esercizio di « poteri di controllo sostitutivo» da parte degli organi di cui al comma 1 dell'art. 130 Cost. non rappresenta, infatti, il prodotto d'una invenzione della legge finanziaria 1984, ma trova preciso fondamento nell'art. 59, u.c., l. n. 62 del 1953. Ai sensi delle disposizioni già vigenti in materia, cui tale norma rinvia, i comitati regionali di controllo sono cioè titolari degli stessi poteri già esercitati dal prefetto e dalla giunta provinciale amministrativa, con particolare riguardo all'adozione degli « atti comunque obbligatori per legge », previsti dagli artt. 19, 104 e 153 del r.d. 3 marzo 1934 n. 383; ed altrettanto vale nel campo sanitario, dal momento che l'art. 49, comma 1, 1. n. 833 (sia prima che dopo la modifica apportata dall'art. 13, comma 4, della citata 1. n. 181 del 1982) affida appunto ai comitati regionali il controllo sugli atti delle U.S.L.
Ora, il sintetico testo dell'impugnato art. 28, comma 1, lascia intendere che tale norma non innova affatto in tema di controlli sostitutivi esercitabili dai comitati, bensì presuppone la circoscritta competenza già esistente in base alla 1. n. 62 del 1953; e ne tratta al solo scopo di stabilire un rapporto fra i, comitati stessi e la Regione, cui viene attribuito il potere-dovere di diffidare le unità sanitarie locali deficitarie per poi sollecitare gli organi regionali di controllo, pur ferma restando la loro necessaria indipendenza. Rimane perciò impregiudicato (e: non interessa alla Corte in questa sede) il problema degli ulteriori poteri esercitabili dagli organi regionali di amministrazione attiva, nei riguardi degli atti e delle attività spettanti alle U.S.L.; e non si concreta d'altronde, alcuna usurpazione di potestà legislative riservate alla Regione stessa. Come questa Corte ha precisato fin dalla sentenza n. 40 del 1972, spetta in prima linea alle leggi della Repubblica, in attuazione dell'art. 130 Cost., la disciplina dei controlli sugli atti degli enti locali, cui sono assimilate le unità sanitarie, quali «strutture operative» dei Comuni o delle Comunità montane (in base agli artt. 13, commi 1 e 2, e 15, comma 1, l. n. 833); sicché non si applica in tal campo — allo stato attuale del diritto— il criterio affermato dalla Corte nella sentenza n. 178 del 1973 (e ribadito dall'art. 13 d.P.R. n. 616 del 1977), quanto alla piena competenza regionale sugli enti che agiscono nelle materie elencate dall'art. 117 Cosi., ivi compresi i relativi controlli. Malgrado possa apparire macchinosa e dia testimonianza delle profonde incertezze del Parlamento, nel considerare l'intricato tema dei rapporti fra le varie amministrazioni, cooperanti in materia sanitaria, la norma impugnata non è dunque in contrasto —nella sua prima parte — né con l'art. 117 né con l'art. 130 Cost.
b) Da tali premesse discende, però, l'infondatezza, delle stesse censure concernenti la seconda parte dell'art. 28, comma 1. Anche agli effetti dello scioglimento dei comitati di gestione delle U.S.L., la riforma attuata dalla 1. n. 833 del 1978 si discosta con nettezza dal precedente ordinamento sanitario: nell'ambito del quale i consigli di amministrazione degli enti ospedalieri potevano essere sciolti « con decreto motivato del Presidente della Regione su deliberazione della Giunta regionale» (cfr. l'art. 17, comma 1, 1. n. 132 del 1968). Oggi, al contrario, i controlli sugli atti e sugli organi delle unità sanitarie locali seguono puntualmente — in base all'espresso disposto dell'art. 49, comma 2, della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale — le sorti dei corrispondenti controlli relativi ai Comuni ed alle Province: con la conseguenza che i soli controlli sugli atti spettano agli appositi comitati regionali, mentre i controlli sugli organi rientrano nella competenza dello Stato. Ed in quest'ultimo campo ricadono senz'altro gli stessi scioglimenti dovuti a ragioni funzionali, sul tipo di quello previsto dalla norma in esame,: per cui non è fondato l'assunto della ricorrente, che imputa all'art. 28, comma 1, l'aver trasformato in controllo sugli organi « quello che. in realtà rimane un controllo sull'attività ».
Se tale è il riparto fra le competenze statali e regionali, non hanno pregio nemmeno gli ulteriori argomenti addotti dalla difesa della Regione Veneto. Da una parte, non rileva ai fini del presente giudizio l'asserita anomalia di un controllo, sugli organi affidato al. Commissario del Governo (tanto più che la norma impugnata si presta, sul punto, ad essere diversamente interpretata ed applicata). D'altra parte, la Regione non può dolersi del fatto di venire chiamata a richiedere lo scioglimento dei comitati di gestione delle U.S.L., nei casi indicati dal citato art. 28, comma 1: poiché il rapporto così prefigurato dalla legge finanziaria 1984 non implica affatto che l'amministrazione regionale venga impiegata « come soggetto ausiliare .del controllo statale», ma si colloca sul piano di una collaborazione fra lo Stato e la Regione stessa, che non trova ostacolo nel titolo V della Costituzione.
11. Le Regioni Veneto, Sicilia, Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia, nonché la Provincia di Bolzano, impugnano ancora l'art. 29 1. n. 730, con particolare riguardo al n. 1 del comma 2: per cui le Regioni e le Province autonome, ogni qualvolta non siano sufficienti le disponibilità complessive di parte corrente delle rispettive quote del fondo sanitario nazionale (ovvero le altre entrate di cui al citato comma 2 dell'art. 25), devono « ripianare il disavanzo delle unità sanitarie locali » a decorrere dall'esercizio 1984, ricorrendo in primo luogo al « prelievo dei fondi necessari dalla quota del fondo comune di cui all'art. 8 l. 16 maggio 1970 n. 281, e per le regioni a statuto speciale o province autonome dalle corrispondenti entrate di parte corrente previste dai rispettivi ordinamenti ».
Secondo le censure concordemente prospettate nei vari ricorsi, la norma in questione sarebbe viziata per ragioni analoghe a quelle già dedotte dalle Regioni ricorrenti, in ordine al comma 13 dell'art. 7. All'onere finanziario fatto gravare sulle Regioni e sulle Province autonome non corrisponderebbe, cioè, rassegnazione di adeguate risorse da parte dello Stato, vista la cronica insufficienza del fondo sanitario nazionale, che sarebbe d'altronde presupposta dallo stesso art. 29; sicché ne discenderebbe, anzitutto, un contrasto con quanto stabilito dall'art. 27 1. n. 468 del 1978, in conseguente violazione del comma 4 dell'art. 81 Cost. Anche in questo caso, inoltre, la puntuale destinazione imposta dalla legge finanziaria 1984, concernente somme liberamente disponibili dalle Regioni e dalle Province autonome per l'adempimento delle loro «funzioni normali», verrebbe a contraddire l'art. 119 Cost. (come pure i corrispondenti disposti degli Statuti speciali). Del resto, sarebbe tanto meno ammissibile che il controllore venga chiamato — come nella specie — a pagare i debiti del controllato, in quanto la gestione delle unità sanitarie farebbe capo agli enti locali e non alle Regioni, stando alle chiare indicazioni fornite dagli artt. 10, comma 2, 13, commi 1 e 2, 15, comma 1, e 51, comma 3, 1. n. 833 del 1978. Al che si aggiungerebbe, infine, che le stesse unità sanitarie non sarebbero compiutamente in grado di programmare e di contenere le rispettive spese, data la rigidità di esse e la loro stretta dipendenza dalle scelte degli organi centrali di governo.
Per valutare la fondatezza di simili assunti, occorre stabilire preliminarmente — nelle grandi linee — quale sia l'attuale regime della materia cui si riferiscono le impugnative in esame. L'Avvocatura dello Stato cerca infatti di resistere ai ricorsi regionali, deducendo che l'assistenza sanitaria « è costituzionalmente attribuita... alle regioni », con la conseguenza che « in base alla legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, spetta alle regioni assicurare la corrispondenza tra costi del servizio ed i relativi benefici..., come spetta l'esercizio dei poteri di controllo » sulle unità sanitarie locali. Ma tale « attribuzione di competenza» — sì osserva ancora nell'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri — non può non implicare, « proprio per il disposto dell'art. 119 Cost., la relativa responsabilità finanziaria alla quale le regioni devono far fronte con i mezzi indicati al comma 2 e 3 dell'articolo stesso ».
In realtà, la Corte è dell'avviso che l'« assistenza sanitaria ed ospedaliera », sebbene compresa nell'elenco dell'art. 117 Cost., non si risolva in una materia pienamente assimilabile agli altri settori di competenza regionale: sia per la particolare intensità dei limiti cui sono in tal campo sottoposte la legislazione e l'amministrazione delle Regioni, sia per le peculiari forme e modalità di finanziamento della relativa spesa pubblica, sia — soprattutto — per i tipici rapporti che l'ordinamento vigente stabilisce fra le varie specie di enti ed organismi cooperanti ed interagenti nella materia medesima. Sotto diversi aspetti, le caratteristiche ora accennate hanno anzi incominciato ad evidenziarsi già prima della profonda riforma introdotta dalla l. n. 833 del 1978. Sin dalla legge n. 132 del 1968 sono stati infatti costituiti su tutto il territorio nazionale appositi enti ospedalieri, dotati di compiti testualmente definiti esclusivi e finanziati per mezzo d'uno specifico fondo nazionale (cfr. gli artt. 1, comma 1, e 33 1. cit.). È quindi sopraggiunto il d. l. n. 264 del 1974 (convertito nella 1. n. 386 del medesimo anno), che ha istituito a sua "volta il «fondo nazionale per l'assistenza ospedaliera », da ripartire fra le varie Regioni, sotto forma di stanziamenti « iscritti in appositi capitoli del bilancio regionale » (ex art. 14 ss. d.l. cit.). E un determinante passo verso l'istituzione del previsto servizio sanitario nazionale è stato poi compiuto dall'art 32, comma 1, d.P.R. n. 616 del 1977, che ha senz'altro attribuito « ai comuni, singoli ed associati, ai sensi dell'art. 118, comma 1, Cost., tutte le funzioni amministrative relative alla materia » dell'assistenza sanitaria ed ospedaliera, ad eccezione di quelle « espressamente riservate allo Stato, alle regioni e alle province ».
Rispetto a questi precedenti normativi, la l. n. 833 del 1978 ha tuttavia complicato ulteriormente la distribuzione dei ruoli nel campo sanitario, fissando e distinguendo essenzialmente tre ordini di competenze: il primo dei quali spetta allo Stato, in nome del principio di eguaglianza di tutti i cittadini nei confronti del servizio (cfr. gli artt. 3 ss., 47, 48, 51, 53 1. cit.); mentre il secondo s'impernia sulle funzioni legislative e programmatorie affidate alle Regioni (specialmente in base agli artt. 11, 15, comma 9, 50 e 55 1. cit.); ed il terzo interessa in sostanza quei nuovi organismi che sono le unità sanitarie locali (sia pure concepite come « strutture operative » dei Comuni), le quali svolgono tutti i compiti residui, disponendo in tal senso d'una indubitabile autonomia gestionale ed organizzativa. Né questo disegno, per quanto integrato, derogato e corretto più volte dal legislatore statale (come già si notava, nell'affrontare le questioni di legittimità, costituzionale concernenti l'art. 28 1. n. 730), è stato mai ripensato in modo organico: che anzi lo stesso progetto di riforma delle unità sanitarie locali, predisposto dal Ministero della sanità, continua a puntare — in ultima analisi — sull'autonomia delle "U.S.L., quali « aziende speciali» dei Comuni o delle Comunità montane.
Certo, ciò non significa che nel settore in esame il ruolo attribuito alle Regioni rimanga secondario; e non vale ad escludere — in particolar modo — che le amministrazioni regionali siano provviste di specifici poteri, esercitabili per contenere la spesa sanitaria o per impedire il formarsi di maggiori oneri. Basti qui ricordare — per averne la dimostrazione — i poteri di ridimensionamento delle strutture o dei servizi eccedenti o non essenziali o sottoutilizzati, impliciti nelle previsioni dell'art. 55 1. n. 833 (relative ai «piani sanitari regionali») e quindi esplicitate dall'art 5, comma 2, l. n. 526 del 1982; come pure i poteri spettanti alle Regioni in tema di piante organiche delle U.S.L., già in forza dell'art 15, comma 9, n. 4, 1. n. 833 (cui si sono aggiunti — per effetto della sentenza n. 307 del 1983 — i provvedimenti autorizzativi delle assunzioni di nuovo personale, in deroga al blocco stabilito dalla legge finanziaria 1983); nonché i poteri sostitutivi configurati da numerose leggi statali ed anche regionali, successive all'istituzione del servizio sanitario nazionale, alle quali si è per altro sovrapposto il citato art. 28 della legge finanziaria 1984.
Senonché nessuna di queste competenze basta a far concludere — come invece vorrebbe l'Avvocatura dello Stato — che le amministrazioni regionali portino dunque l'effettiva responsabilità degli eventuali disavanzi delle U.S.L. Assunti del genere sono oltre tutto smentiti dalla considerazione che la parte essenziale della spesa sanitaria ed ospedaliera non può non gravare sullo Stato — come è confermato dal susseguirsi dei fondi speciali di cui si è fatto cenno — per l'evidente ragione che il diritto alla salute spetta egualmente a tutti i cittadini e va salvaguardato sull'intero territorio nazionale. Non è pertanto casuale che la spesa in questione sia prevalentemente rigida e non si presti a venire manovrata, in qualche misura, se non dagli organi centrali di governo. È appunto l'esigenza di pari trattamento, sottesa all'intera riforma sanitaria, che spiega per quali motivi le singole Regioni non possano — almeno di regola — incidere sulla spesa farmaceutica e sugli altri oneri derivanti dalle prescrizioni mediche, sui ricoveri ospedalieri, sullo stato giuridico ed economico del personale dipendente dalle U.S.L., sul regime del personale a rapporto convenzionale, sugli stessi acquisti dei beni e dei servizi indispensabili per il funzionamento delle unità sanitarie locali. E non si può far richiamo, per argomentare il contrario, al comma 2, n. 2, dell'art. 29 della legge finanziaria 1984, in cui si prevede che le Regioni e le Province autonome stabiliscano « quote di partecipazione al costo delle prestazioni». Per non violare l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio, la sfera di operatività d'una norma siffatta dev'essere, invero, ridotta ai minimi termini; mentre è soltanto lo Stato che dispone, ancora una volta, della potestà di circoscrivere in tal senso la spesa, per mezzo dell'introduzione di tickets o con il ricorso ad altre analoghe misure di contenimento.
In breve, gran parte della spesa sanitaria si forma indipendentemente dalle scelte regionali (e dalle stesse deliberazioni degli organi di gestione delle unità sanitarie locali). Ma di questo dato l'art. 29 non tiene il minimo conto, imponendo comunque alla Regione il ripiano del disavanzo, quali che siano i fattori che lo abbiano prodotto : in antitesi a quanto previsto dal seguente art. 30, che pone a carico degli enti locali e delle amministrazioni regionali il finanziamento delle « attività di tipo socio-assistenziale » pertinenti alle rispettive competenze e svolte per mezzo delle U.S.L., ma nelle misure ed alle condizioni autonomamente stabilite dalle amministrazioni e dagli enti medesimi.
Del resto, non hanno fondamento le sole giustificazioni della norma impugnata che sono state addotte nel corso dei lavori preparatori, allorché si affermava che la norma stessa avrebbe superato il metodo del cosiddetto pié di lista, senza però determinare rilevanti oneri per le Regioni, data la prevedibile adeguatezza del fondo sanitario nazionale. In realtà, il « pié di lista » permane, con la sola novità rappresentata dal subentrare delle Regioni in luogo dello Stato; mentre il fondo sanitario nazionale per il 1984, già contenuto nella misura di 34.000 miliardi per la parte corrente (in base, al comma 1 dell'art. 25 l. n. 730), risulta sottostimato di oltre 4.000 miliardi, secondo la recente relazione ministeriale sull'andamento della spesa sanitaria (elaborata ai sensi dell'art. 32, comma 2, 1. cit.). Ad evitare, per ora, che un deficit di tali proporzioni ricada senz'altro sulla finanza regionale, sta il comma 3 dell'art. 29, per cui le Regioni (ovvero le Province autonome) devono provvedere al ripiano limitatamente all'anno 1984, nella sola parte concernente il « disavanzo della gestione di competenza ». Ma il rimedio è piuttosto apparente che reale, poiché gli espedienti contabili non bastano di certo a soddisfare le necessità del servizio sanitario; e resta fermo, comunque, che l'efficacia della disciplina impugnata non è temporanea bensì permanente, sicché i suoi disposti sono destinati ad operare senza limiti di sorta, quanto ai prossimi esercizi finanziari. Pertanto, sul medesimo piano dell'art. 7, comma 13, anche l'art. 29, comma 2, n. 1, l. n. 730 risulta viziato d'illegittimità costituzionale.
Conclusivamente, tuttavia, la Corte deve ancora rilevare come l'intera vicenda delle impugnazioni regionali concernenti le «disposizioni in materia sanitaria », dettate dalla legge, finanziaria 1984,. valga a comprovare l'esigenza che il Parlamento riconsideri organicamente l'ordinamento del servizio sanitario nazionale. Non basta, cioè, che venga riformata e snellita — secondo lo schema predisposto dal Ministro della sanitࠗ l'organizzazione interna delle unità sanitarie locali. Occorre, del pari, che si faccia chiarezza nell'attuale intreccio delle competenze, spettanti ai vari tipi di apparati corresponsabili in materia, evitando in particolar modo l'eccessiva moltiplicazione dei centri di autonomia, sia pure attuata nel formale rispetto della Costituzione. Ed. è ben chiaro, d'altronde, che non servono allo scopo le leggi finanziarie, né gli altri provvedimenti di carattere urgente o comunque contingente: là dove sono in gioco funzioni e diritti costituzionalmente previsti e garantiti, è infatti indispensabile superare la prospettiva del puro contenimento della spesa pubblica, per assicurare la certezza del diritto ed il buon andamento delle pubbliche amministrazioni, mediante discipline coerenti e destinate a durare nel tempo.
12. Nell'ambito delle « disposizioni in, materia sanitaria », forma infine oggetto d'impugnazione l'art. 31 1. n. 730. In base al comma 1 di tale articolo, «il Ministro della sanità provvede, con proprio decreto da emanarsi entro 90 giorni dall'entrata in vigore della presente legge, sentito il Consiglio sanitario nazionale, udito previamente il Consiglio di Stato, alla definizione di capitolati generali per forniture di beni e servizi alle unità sanitarie locali, nonché di capitolati speciali ». Con il comma 2 viene "invece istituito «presso le regioni l'albo regionale dei fornitori del Servizio sanitario nazionale»; mentre allo stesso Ministro si affida il compito di provvedere, « con propri decreti, all'individuazione delle tipologie e delle classi di appartenenza, dei requisiti per l'iscrizione nel rispetto della normativa vigente nazionale e comunitaria ».
Mediante un congiunto riferimento ad entrambi i commi dell'art. 31, le Regioni Sicilia, Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia deducono che tale disciplina violerebbe la competenza legislativa ed amministrativa, regionale, dato che gli artt. 117 Cost. e 50 1. n. 833 del 1978 (nonché gli arti. 17 e 20 dello Statuto siciliano) riserverebbero alle Regioni medesime i settori dell'« amministrazione del patrimonio » e della « contabilità » delle U.S.L., ivi compresa la disciplina della loro attività contrattuale. Per contro, l'aver conferito in materia poteri amministrativi e normativi al Ministro per la sanità, senza nemmeno predeterminare limiti e criteri, sarebbe non solo invasivo delle attribuzioni regionali ma anche lesivo del «principio della riserva di legge», al quale andrebbe soggetta la stessa funzione governativa di indirizzo e coordinamento: anche se in questo specifico caso — aggiungono le difese regionali — detta funzione non assumerebbe alcun rilievo, trattandosi di un completo « esautoramento » delle Regioni, attuato nel campo dell'« assistenza sanitaria ed ospedaliera », senza il sostegno di alcuna effettiva esigenza di carattere unitario. Ed analoghe motivazioni si rinvengono nel ricorso del Veneto, sebbene quest'ultima Regione impugni unicamente il capoverso dell'articolo in esame.
a) Secondo la Corte, i due commi dell'art. 31 richiedono invece "una distinta considerazione. Circa il comma 1, va escluso anzitutto — contrariamente a quanto sostiene l'Avvocatura dello Stato — che esso attribuisca al Ministro della sanità una vera e propria funzione di indirizzo e coordinamento, derogando all'art. 5 1. n. 833 del 1978 (nel quale si riserva all'intero Governo l'esercizio della funzione medesima, per ciò che riguarda il potere esecutivo dello Stato), ma in termini «ugualmente rispettosi dell'autonomia amministrativa delle regioni ». Da un lato, infatti, non si può certo presumere che una legge statale configuri una nuova e specifica funzione di indirizzo, concorrente con quella fondata sulle generali disposizioni dell'art. 5 1. n. 833 e — prima ancora — dell'art. 3 1. n. 382 del 1975, senza precisare testualmente di quale natura siano i poteri in tal senso previsti (e senza neanche indicare le norme che verrebbero così derogate). D'altro lato, è comunque decisiva la constatazione che, nel definire i capitolati per le forniture di beni e servizi alle unità sanitarie locali, il Ministro non si limita affatto ad emanare direttive vincolanti le Regioni, ferma restando una qualche competenza regionale; bensì riassume un complesso di compiti già trasferiti alle Regioni stesse, così integralmente da esaurire le attribuzioni delle quali si tratta.
Effettivamente, che sul punto sussista una competenza propria dell'ente Regione, non è stato negato dall'Avvocatura dello Stato; ed anzi rappresenta il naturale presupposto della tesi per cui l'art. 31, comma 1, conferirebbe al Ministro della sanità una pura funzione di indirizzo e coordinamento. Ciò che più conta, la l. n. 833 del 1978 dispone con chiarezza che, nell'ambito delle norme statali di principio e ferme restando le competenze specificamente riservate allo Stato, spetta alla Regione disciplinare « l'organizzazione, la gestione e il funzionamento delle unità sanitarie locali e dei loro servizi», con particolare riguardo alla contabilità (cfr. gli artt. 15, comma 9, e 50, comma 1). E che i « contratti di fornitura » facciano in tal senso parte della contabilitࠗ poco importa se in base ad un concetto più o meno preciso ed aggiornato di tale materia — risulta testualmente dall'art 50, comma 1, n. 8, 1. cit.
S'intende che leggi statali successive possono: bene dettare nuove norme di principio e possono anche soddisfare ulteriori esigenze di carattere unitario, emerse in un momento posteriore all'istituzione del servizio sanitario nazionale. Ma tale non è il caso dei poteri ministeriali previsti dalla norma in questione: sia perché la legge finanziaria 1984 si è limitata a conferirli, senza fissare in proposito princìpi di sorta;
sia perché la Corte non ravvisa in questo campo la presenza di interessi che, «per natura o dimensione», attengano all'« intera collettività nazionale» e restino «necessariamente affidati» all'apprezzamento degli organi centrali di governo: così da giustificare — secondo i criteri enunciati dalla sentenza n. 150 del 1982 — il ritrasferimento delle funzioni in esame dalle Regioni allo Stato. Non a caso, del resto, fin dal periodo fascista i capitolati generali delle Province e dei principali Comuni venivano compilati dagli stessi enti interessati (ai sensi dell'art. 294:, comma 1, r.d. n. 383 del 1934); il che, conferma l'illegittimità costituzionale dell'impugnato art. 31, comma 1, per violazione degli artt. 117 e 118 Cost. (nonché delle corrispondenti disposizioni degli Statuti speciali, quanto alle competenze regionali vertenti nel settore sanitario).
b) Al contrario, le impugnative delle Regioni ricorrenti vanno respinte, per ciò che riguarda il capoverso del medesimo articolo. Diversamente dal comma 1, quest'ultima disposizione introduce una nuova disciplina di principio, vincolante la legislazione regionale, senza per altro esaurire la competenza già spettante alle Regioni. Viene infatti prevista, sull'intero territorio nazionale, l'istituzione dì appositi albi regionali dei fornitori del servizio sanitario nazionale; ma rimane implicitamente fermo che l'istituzione stessa, come pure la tenuta degli albi in questione, compete alle Regioni e non al Ministro della sanità. Quanto invece al Ministro, è vero che la norma impugnata gli conferisce espressamente la potestà di stabilire, in via amministrativa, le «tipologie» e le « classi di appartenenza », nonché i «requisiti per l'iscrizione » dei fornitori del servizio; ma tali previsioni devono venire interpretate e valutate, considerando che il Ministro ha l'obbligo di assicurare il «rispetto della normativa vigente nazionale e comunitaria», in vista dei soli requisiti minimi, atti a garantire — ancora una volta — la fondamentale uniformità delle prestazioni sanitarie. Così ricostruito, dunque, il comma 2 dell'art. 31 sfugge alle censure proposte dai ricorsi in esame.
13. Da ultimo, la Regione Veneto solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 35, comma 14, 1. n. 730.
Per effetto di tale disposto, nell'art 21, comma 4, d. l. n. 463 del 1983 (convertito nella 1. n. 638 del medesimo anno), le parole «per un importo superiore al 12 % dell'ammontare » .sono sostituite dalle altre «per un importo superiore al 6 %... » e le parole « che costituisce il limite del 12%» sono del pari sostituite dalle altre «che costituisce il limite del 6 % »; con il che si riducono ulteriormente le disponibilità che le Regioni possono depositare, «a qualunque titolo», presso le aziende di credito di cui all'art. 5 r.d. l. n. 375 del 1936 e successive modificazioni. E di qui discende — secondo il ricorso —- la violazione dell'autonomia finanziaria garantita dall'art. 119 Cost.: violazione che verrebbe perpetrata attraverso un « inaccettabile aggravamento di un anomalo controllo della finanza regionale ».
Ma la questione si dimostra non fondata, per le stesse ragioni già svolte dalla Corte nella sentenza n. 162 del 1982 e poi ribadite nella sentenza n. 307 del 1983, Mediante la prima di tali decisioni, è stata infatti affermata la legittimità dell'esercizio di « questo potere di controllo e di regolamentazione» da parte dello Stato, al fine di «limitare l'onere derivante dalla provvista anticipata dei fondi rispetto all'effettiva capacità di spesa degli enti »; ed è stato chiarito che una siffatta disciplina «non preclude alle Regioni la facoltà di disporre delle proprie risorse..., ma si limita a consentire il controllo del flusso delle disponibilità di cassa, coordinandolo alle esigenze generali dell'economia nazionale, nel quadro di quella regolamentazione del credito che è dovere peculiare dello Stato » stesso. Rispetto alla questione allora risolta dalla Corte, l'attuale impugnativa differisce soltanto per ciò che riguarda la diminuita percentuale delle disponibilità depositabili presso le tesorerie delle Regioni; ma, sotto questo profilo, si tratta di un problema di politica economica, che non si presta ad essere preso in esame nell'ambito di un giudizio di legittimità costituzionale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

Riuniti i procedimenti iscritti ai nn. da 3 a 12 del registro ricorsi, 1984
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27 l. 27 dicembre 1983 n. 730, intitolata « Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1984) », promossa dalla Regione Sicilia, in riferimento agli artt. 17 e 20 dello Statuto della Regione medesima;
2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 7, comma 13, l. n. 730 del 1983, nella parte in cui prevede die, per la copertura del disavanzi delle aziende di trasporto pubblico locale, non ripianabili con i contributi regionali di esercizio di cui all'art. 5 l. n. 151 del 1981, le Regioni sono tenute — anziché facoltizzate — a prelevare i fondi necessari dalla quota del fondo comune di cui all'art. 8 1. n. 281 del 1970, quanto alle Regioni a statuto ordinario, e dalle corrispondenti entrate di parte corrente previste dai rispettivi ordinamenti, quanto alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome;
3) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 19, comma 3, l. n. 730 del 1983, nella parte in cui non prevede che siano le Regioni — anziché il Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio stesso, sentito il Ministro del tesoro — a determinare, valutate le eventuali necessità, i singoli casi in cui sia indispensabile procedere ad assunzione di personale presso gli enti amministrativi dipendenti dalle Regioni medesime, ferme restando le funzioni di indirizzo e coordinamento previste per le amministrazioni regionali dall'art. 9, comma 5, l. n. 130 del 1983;
4) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art, 29, comma 2, n: 1, l. n. 730 del 1983, nella parte in cui prevede che, per ripianare il disavanzo delle unità sanitarie locali, le Regioni sono tenute - anziché facoltizzate - a prelevare i fondi necessari dalla quota del fondo comune di cui all'art. 8 l. n. 281 del 1970, quanto alle Regioni a statuto ordinario, e dalle corrispondenti entrate di parte corrente previste dai rispettivi ordinamenti, quanto alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome;
5) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 31, comma 1, l. n. 730 del 1983;
6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 11, l. n..730 del 1983, promossa dalle Regioni Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia, in riferimento agli arti. 5, 81, comma 4, 117, 118 e 119 Cost.;
7) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 12, 1. n. 730 del 1983, promossa dalle Regioni Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia, in riferimento agli artt., 5, 81, comma 4, 117, 118 e 119 Cost.;
8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 3, l. n. 730 del 1983 (nella parte concernente le amministrazioni regionali, di cui all'art. 9, comma 5, l. n. 130 del 1983), promossa dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 5, 115, 117 e 118 Cost.;
9) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 4 l. n. 730 del 1983, promossa dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 5, 115, 117 e 118 Cost.;
10) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 24, comma 1, lett. b), l. n. 730 del 1983, promossa dalla Regione Toscana, in riferimento all'art. 117 Cost.;
11) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. .25, comma 2, l. n. 730.del 1983, promossa dalla Regione Trentino Allo Adige e dalle Province di Trento e di Balzano, in riferimento agli artt. 4, n.7, 9 n. 10, 16 e 54 n. 5, d.P.R. n. 670 del 1972 (Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige);
12) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 3,. l. n. 730 del 1983, promossa dalla Regione Sicilia, in riferimento agli artt. 32, comma, 1, e 119 Cost. ed all'art. 19 dello Statuto della Regione siciliana;
13) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma. 3, ultimo periodo, l. n. 730 del 1983, promossa dalla Regione Trentino-Alto Adige e dalle Province di Trento e di Bolzano, in riferimento agli artt. 4 n. 7, 8 n. 1, 9 n. 10 e 16 d.P.R. n. 670 del 1972 (Statuto speciale per il Trentino Alto Adige);
14) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, commi 1 ed ultimo, l. n. 730 del 1983, promossa dalle Province di Trento e di Bolzano, in riferimento agli artt. 9 n. 10, 16 e 78 d.P.R. n. 670 del 1972 (Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige);
15) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 28 l. n. 730 del 1983, promossa dalla Regione Veneto in riferimento agli artt. 5, 115, 117, 118, 123 e 130 Cost.;
16) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 31, comma 2, l. n. 730 del 1983, promossa dalle Regioni Veneto, Sicilia, Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna, Lombardia, in riferimento agli artt. 5, 115, 117 e 118 Cost. ed agli arti. 17 e 20 dello Statuto della Regione siciliana;
17) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, comma 5, l. n. 730 del 1983, promossa dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 117 e 130 Cost.;
18) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 35, comma 14, l. n. 730 del 1983, promossa dalla Regione Veneto, in. riferimento all'art. 119 Cost.
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